DI BRUNO VESPA
Perché in questa campagna elettorale Silvio Berlusconi è così diverso dallo Sparafucile che abbiamo conosciuto per oltre un decennio? Perché ha deciso di fare il Marito e il Padre degli italiani invece che il Seduttore e l’Amante? Una risposta può essere questa: 5 anni a Palazzo Chigi e 20 mesi di governo Prodi gli hanno mostrato il vero volto dell’Italia.
All’inizio della sua avventura politica, nel 1994, Berlusconi riteneva che una nazione si potesse governare come un’azienda e che gli azionisti (gli italiani, nella fattispecie) potessero essere guidati sostanzialmente attraverso la televisione e senza un vero partito di riferimento.
La sua prima esperienza di governo andò come andò: in 9 mesi di governo, con Umberto Bossi e Gianfranco Fini che non si parlavano, non fece nemmeno in tempo a orientarsi nei corridoi di Palazzo Chigi.
Il vero mandato da presidente del Consiglio (2001-2006) gli insegnò invece parecchie cose. La prima: la Casa delle libertà era unita da valori di fondo che produssero alcune buone riforme, ma l’anima dei partiti è quella che è e vecchi cordoni ombelicali erano difficili da tagliare. Un caso per tutti: la spesa pubblica restò molto elevata. La seconda: sebbene il patto di lealtà tra alleati non abbia determinato ribaltoni per la prima volta nella breve storia della Seconda repubblica, Berlusconi arrivò logorato alla fine della legislatura. Indipendentemente dalle ragioni e dai torti, le liti tra Fini e Giulio Tremonti e la «discontinuità» invocata e ottenuta dall’Udc procurarono al governo una forte crisi di credibilità. È facile concludere che, se gli alleati si fossero risparmiati qualche coltellata, i 24.577 voti di differenza alla Camera sarebbero stati facilmente colmati.
L’Udc è poi uscita dalla Casa delle libertà dopo la vittoria di Romano Prodi e soltanto quando ha cominciato a spirare aria di elezioni ha ripreso i contatti col Cavaliere, pur tardando molto a offrirgli la piena garanzia di premiership. Questo spiega la durezza manifestata in questi giorni da Berlusconi nei confronti di Pier Ferdinando Casini.
Il terzo elemento che ha suggerito al Cavaliere un approccio diverso in questa campagna elettorale è la lentezza dell’amministrazione pubblica e la complessità di un Paese in cui la casta non è solo politica ma si annida in ogni fazione imprenditoriale, sindacale e professionale. Berlusconi ha capito che il Paese è stanco: stanco di liti, di rinfacci, di promesse non mantenute, di assoluta carenza carenza di capacità decisionale. Ecco perché a Porta a porta, martedì 12 febbraio, è apparsa una persona tanto diversa dal suo stereotipo. Ecco perché in «Rialzati, Italia» non viene raffigurato dal Superman di ieri che prende in braccio il Paese e lo fa volare, ma da un pater familias settantenne che gli tende la mano per riprendere insieme un cammino faticoso ma in fondo ottimista.
Berlusconi sa di non poter dire «meno tasse per tutti» nell’Italia dell’evasione fiscale. Per la prima volta ha capito fino in fondo il disagio dei percettori di reddito fisso e delle classi più deboli, che sono peraltro numericamente il nocciolo duro dei consumatori. Ha capito che bisogna cominciare da lì se si vuole innescare un piccolo circolo virtuoso che dia poi sollievo ai 6 milioni di italiani che formano il popolo delle partite iva. Se davvero andando a Palazzo Chigi Berlusconi riuscisse già da quest’anno a defiscalizzare straordinari e tredicesima, 17 milioni di lavoratori dipendenti avrebbero di fatto uno stipendio in più all’anno.
Se si aggiungessero l’abolizione dell’Ici sulla prima casa e il rilancio delle opere pubbliche, saremmo dinanzi a un miracolo. Ragionevolmente credibile.