La candidatura di Massimo Calearo tra le fila del PD veltroniano è a tutti gli effetti una foglia di fico per coprire il vuoto di consensi tanto nell’imprenditoria “ruspante” quanto nel popolo delle partite IVA in genere.
Prova ne siano i primi punzecchiamenti a cui Calearo è stato sottoposto da alcuni esponenti di centro-sinistra per le sue dichiarazioni pubbliche.
A Calearo, infatti, non sarà perdonata tanto facilmente l’approvazione postuma a Mastella, cioé all’artefice del crollo definitivo di Prodi. E nemmeno l’esclamazione su Visco, impietosamente fotografata da La Stampa: "Per carità di Dio, spero non lo ricandidino". Ai meno intransigenti, ha lo stesso significato di un’apostasia bella e buona.
Ma, a parte creare imbarazzi a chi lo ha candidato, la schiettezza di Calearo in tema di Fisco è interessante soprattutto per capire come stanno le cose per un certo spaccato d’Italia. A mio modo di vedere, infatti, gli elementi in campo sono piuttosto chiari.
Da una parte Giulio Tremonti, che conosce a fondo il mondo delle partite IVA, e propone misure realistiche per contribuire al miglioramento della loro disciplina fiscale. Come il versamento dell’IVA “per cassa”, che serve a evitare di anticipare soldi all’Erario prima di aver incassato – può passare parecchio tempo – la fattura dal cliente. O come forme di tassazione agevolata per chi intraprende iniziative professionali o imprenditoriali e deve già sostenere gli inevitabili costi di avviamento di una nuova attività.
Dall’altra parte, nonostante le migliori intenzioni messe in campo da Veltroni, e nonostante un programma che a molti sembra una scopiazzatura di quello della CdL del 2006 addolcito con lessico buonista, c’è soprattutto una credenziale da nascondere: il bilancio dei 20 mesi di governo Prodi.
Il che, per chi tiene partita IVA (artigiano, commerciante, piccolo imprenditore, professionista, ecc ecc…) equivale a un brutto periodo da lasciarsi a ogni costo alle spalle. Accertamenti sui conti bancari, stretta sugli studi di settore, gogne fiscali per chi sgarra sugli scontrini, disciplina sulle società di comodo sempre più invasive: la lista degli scorsi 20 mesi è veramente molto lunga, e fa spavento a leggerla.
Senza contare che lo zuccherino pre-elettorale per i “piccoli” – il regime dei “minimi” - è una sintesi penosa ma efficace di quello che è stato Visco per gli Italiani questi mesi.
Il regime, per farla il più semplice possibile, propone un’aliquota ridotta (il 20%) per chi fattura meno di 30.000 euro l’anno. Ma nelle scorse settimane i giornali non hanno avuto che l’imbarazzo della scelta nello snocciolare gli elementi insidiosi per contribuenti ignari e indifesi: l’acconto 2008, la rettifica alla detrazione IVA, il rischio di avere perennemente eccedenze a credito in dichiarazione dei redditi. Il tutto condito dalla pelosa promessa di un’esenzione IRAP che - il più delle volte – già c’è.
L’ingiustizia concettuale più grossa del regime dei minimi è forse il “tetto unico” di 30.000 euro ai ricavi per accedere alla tassazione agevolata: perché insistere nell’errore di fissare un valore-soglia unico per un pubblico di contribuenti piuttosto numeroso – le stime ministeriali parlano di 700.000 papabili - e quanto mai variegato al suo interno? Altro che equità sociale!