L'editoriale di MAURIZIO BELPIETRO, direttore di Panorma, dedicato ai fatti di Gravina.
Un tempo la cultura giuridica imponeva di considerare innocente l’imputato fino a che non ne fosse dimostrata la colpevolezza, ossia dopo una sentenza definitiva di condanna. Ma il lento deterioramento della giustizia ha ormai ribaltato questo principio e da presunto colpevole l’indagato è ormai diventato un presunto innocente. In molti casi non è il pm a dover dimostrare, senza ombra di dubbio, che la persona ha commesso il reato di cui è accusata, ma è la difesa a dover dare prova d’innocenza dell’indagato. L’esempio più clamoroso di questo rovesciamento dei ruoli è il parere con cui la procura di Bari si è opposta alla scarcerazione del padre dei due fratellini di Gravina.
Nel caso Pappalardi già appariva abnorme l’applicazione della custodia cautelare a un anno dalla scomparsa di Ciccio e Tore (arresti dettati da un improbabile pericolo di fuga), ma la motivazione con cui si richiede al giudice di tenere in carcere il papà dei due ragazzini è ancora più aberrante. Secondo i magistrati, il ritrovamento dei due cadaveri in fondo al pozzo «non aiuta ad affermare che la condotta di Pappalardi non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla tragica precipitazione». In un linguaggio burogiudiziario, i pm dicono che la difesa non ha dimostrato che l’uomo non ha nulla a che fare con la tragica fine dei propri figli. Invece di riconoscere d’aver sbagliato a ipotizzare che i corpi dei due bimbi fossero sepolti in un anfratto della Murgia, quando invece erano in fondo a un pozzo a poche centinaia di metri dal luogo della loro scomparsa, la procura chiede alla difesa di “rimuovere l’impostazione accusatoria”.
Oltre al rovesciamento dell’onere della prova, in questa terribile vicenda appare evidente anche il fallimento del sistema investigativo. Se per quasi due anni nulla si è saputo della fine di Ciccio e Tore è perché le indagini hanno seguito da subito la pista familiare, mai quella dell’incidente. Si è cercato in Piemonte e in Romania, non nel pozzo di Gravina.
Il deficit investigativo non riguarda solo il caso Pappalardi. L’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco e quello di Meredith Kercher a Perugia sono legati dallo stesso comun denominatore: in entrambi i casi sono stati individuati dei presunti colpevoli, ma non ci sono prove per dimostrarne la responsabilità.
Nelle mani dei pm ci sono indizi a volte anche importanti, ma non sufficienti per un processo. Gravina, Garlasco e Perugia non sono eccezioni: molti dei delitti che negli ultimi dieci anni hanno riempito le pagine dei giornali sono ancora senza castigo e domandarsi se qualcosa non funzioni nel nostro sistema di repressione del crimine è d’obbligo.
La sensazione è che le indagini spesso viaggino a senso unico, limitando le piste investigative e affidandosi con fiducia cieca alle intercettazioni e ai rilievi della scientifica. Senza una confessione dell’assassino (diretta o indiretta) e senza una sua impronta sul luogo del delitto è difficile individuare il responsabile.
Capisco che questo è un terreno minato e che chi vi si avventura rischia grosso. Ma forse è giunto il tempo di riconoscere che i pubblici ministeri, cui compete la responsabilità dell’inchiesta, spesso di investigazioni sanno poco o nulla, talvolta anche meno del personale che dovrebbero guidare. Mi azzardo dunque a fare una proposta: vadano a scuola. Basterebbe un bel corso di polizia che insegni loro a non sposare un’unica tesi e a ben condurre gli interrogatori. Non so se così risolveremo i casi insoluti. Di certo avremo meno colpevoli senza un’ombra di prova.