In aeronautica, giusto per stare in tema, la chiamano «virata a 180 gradi». In pratica un dietrofront in mezzo ai cieli, manovra di difficile esecuzione che richiede mani esperte. Come quelle del comandante Walter Veltroni, che sulla questione Alitalia ne ha compiuta una da pilota delle Frecce tricolore. Basta tornare indietro al 2006, quando il sindaco Veltroni pensava più a Fiumicino che a Palazzo Chigi. Adesso dice che la vendita ai francesi è «l’unica soluzione strutturale ai problemi finanziari e industriali di Alitalia», e che l’idea di una cordata italiana turba il mercato? Be’, due anni fa diceva l’opposto. «Prima di cedere Alitalia agli stranieri ci penserei bene - avvertiva nell’ottobre del 2006 -. Portare gli asset fuori dai confini non paga. Occorre che venga avviata una consultazione per sondare se esistono imprenditori italiani in grado di intervenire. Chiediamo alle imprese di casa nostra se sono disponibili a una sfida di mercato che non sia solo una acquisizione di una rendita».
Avete letto bene: una cordata di imprese italiane per salvare la compagnia di bandiera. Ma non è quello che dice Silvio Berlusconi? La stessa cosa, con la differenza che allora Veltroni giocava a fare il terzo incomodo tra il governo Prodi e l’opposizione, mentre ora è costretto a sottoscrivere l’operato dell’esecutivo, persino su Alitalia.
Era veramente indignato, Walter, dall’idea di vendere ai francesi un’azienda così importante, anzi «un pezzo di Paese». Tanto preoccupato da essersi interessato lui stesso se ci fossero imprenditori disponibili a entrare nel capitale della società. Non gli sembrava affatto di «turbare il mercato», quando al Sole-24 ore del 25 ottobre 2006, confidava: «Mi risulta che ci siano imprese interessate». Del resto era certo che il nostro sistema bancario fosse in grado di sostenere un’operazione di rilancio. «Cosa ha dimostrato il caso Fiat? Che il declino non è dato, non c’è un’inarrestabilità a priori. È la capacità dei singoli, la voglia di riuscire, che possono fare il cambiamento. E così anche per Alitalia».
Ma è anche una questione patriottica, sentimentale, per il Veltroni del 2006. Così si offende quasi dal tono della lettera che il presidente di Alitalia Giancarlo Cimoli spedisce al Sole-24 ore un mesetto dopo. «Quando leggo che è sbagliato che Alitalia resti italiana, e non parliamo di una banca ma della compagnia nazionale, ritengo sia stia facendo un errore molto grave. Non c’è nessun paese in Europa che non abbia una compagnia nazionale. E dobbiamo essere noi l’unico che ci rinuncia?». No, non parlategliene neppure di venderla ad Air France. «La compagnia di bandiera - diceva a gennaio di due anni fa - non è solo una realtà importante per l’economia e per il futuro del nostro paese ma è anche un’azienda in cui lavorano migliaia di persone, di cui abbiamo a cuore il destino. Non esiste un grande paese senza una grande compagnia di bandiera».
Il sogno di Veltroni? Era che l’Alitalia ritrovasse «cuore e cervello a Roma». Perché è straordinario anche il riposizionamento veltronico su Malpensa. Se adesso chiede di andare avanti con Air France ma anche di aprire un tavolo per salvare l’hub milanese, allora da sindaco di Roma metteva avanti ben altre priorità. «La scelta di Malpensa per come è stata gestita non ha portato ai risultati sperati ma ha prodotto una perdita di quota nel mercato», diceva allora. Il problema di Malpensa? «Si chiama Linate, l’ambiguità sui due scali milanesi è stata un errore».