Si ravviva la polemica sui manuali scolastici di storia. Mentre gli esperti correggono il tiro, i libri di testo rimangono quasi sempre uguali a se stessi. Dopo che il senatore Marcello Dell’Utri ha riproposto il tema, abbiamo chiesto l'opinione di Alessandro Campi, docente di Storia delle dottrine politiche all'università di Perugia e noto per gli studi sulla trasformazione dello Stato e dei partiti nell'Europa del Novecento.
Nella scuola italiana, i libri di testo si possono considerare mediamente incompleti o inesatti?
«I manuali di storia degli anni Settanta e Ottanta (alcuni circolano ancora nelle nostre scuole anche se in nuove edizioni), avevano due caratteristiche: risentivano di una forte ipoteca ideologica e ambivano a offrire una lettura unitaria e progressista della storia universale. Il loro filo conduttore era la storia politica vista in senso eurocentrico e interpretata in chiave classista. Oggi nei nuovi manuali prevale la logica della multimedialità. Le immagini spesso hanno la prevalenza sul testo. La narrazione dei fatti è quasi sempre integrata da schede di lettura e approfondimenti. La cronologia è sostituita dallo studio per grandi aree geografiche o per grandi problemi. Per i giovani studenti è come se la storia si svolgesse in una sorta di eterno presente. In più, in una chiave morale e di pedagogia collettiva. Forse è su questo che varrebbe la pena di aprire una discussione».
Sembra che in alcuni casi il dibattito sociale e storiografico non arrivi ai libri di testo.
«In effetti è difficile trasferire le acquisizioni della storiografia scientifica nella manualistica della scuola. In molti casi i manuali andrebbero riscritti da zero, ma gli autori non hanno voglia né tempo e gli editori si accontentano di piccole revisioni. Il che porta a una divaricazione tra i risultati della ricerca e la conoscenza storica di base. Prendiamo il caso delle foibe. Gli studiosi ne hanno scritto moltissimo. Ma sino a che le foibe non troveranno uno spazio nella manualistica scolastica, dove si forma il senso comune storico di una nazione, è come se non fossero mai esistite. Ma questo vale per altri temi. Fino alla metà degli anni Settanta in certi manuali non si parlava dell'Olocausto. Il Camera-Fabietti, nell'edizione del 1972, dedica allo sterminio degli ebrei appena tre righe».
Le polemiche più frequenti toccano argomenti recenti, dal fascismo in poi. Ma l'aggiornamento dei testi non potrebbe riguardare anche fatti anteriori?
«In teoria, tutto si può rivedere, anche il medioevo o la guerra civile americana. La storiografia implica la revisione: non dei fatti, ma delle interpretazioni e dei giudizi. Ma pensare che su questo terreno possa intervenire la politica, il governo o una qualche commissione o autorità centrale è un errore. I cattivi manuali si combattono solo scrivendone di buoni, uno sforzo che compete agli storici. Poi, una volta scritto, un manuale dev'essere anche adottato. E qui tocchiamo un altro problema: una classe di insegnanti che in maggioranza hanno una forma mentis improntata all'abc del politicamente corretto contemporaneo. Con costoro non c'è manuale che tenga e il pluralismo delle interpretazioni storiografiche è una bestemmia».
Può indicarci qualche punto della storia recente che andrebbe corretto, se non altro perché il dibattito tra gli storici è giunto a conclusioni univoche?
«Il giudizio storico sul comunismo è ancora benevolo. Ci sono resistenze psicologiche. Della Resistenza bisognerebbe dare una visione meno enfatica, ricordando che accanto a quella "rossa" ci sono state la resistenza "bianca" e quella dei "militari". E comunque la cosiddetta "zona grigia", da tutti tanto disprezzata, è stata quella che ha coinvolto la maggioranza degli italiani. Quanto al fascismo, nei manuali c'è la tendenza a nazificarlo, a leggerlo entro il cono d'ombra dell'Olocausto. È un errore di prospettiva. Circola poi nella maggior parte dei manuali una cultura antiindustrialista e anticapitalista, che andrebbe corretta».
Quali sono le responsabilità degli editori di scolastica?
«Quando si verifica un cambio radicale di clima culturale (come è ad esempio successo con il 1989) o quanto si modificano i paradigmi di interpretazione scientifica i manuali andrebbero riscritti. Ma i manuali sono strumenti statici. Più durano nel tempo, magari con piccoli ritocchi grafici e di contenuto da un'edizione all'altra, più si rivelano redditizi. E questo spiega perché, una volta scritti, sia così difficili modificarli nell'impianto, nei contenuti e soprattutto nei giudizi».
Può fare qualche esempio?
«Mi sono occupato di come la Rivoluzione d'ottobre è stata raccontata nei manuali scolastici. Ne ho presi tre molto diffusi (il mitico Camera-Fabietti, il Villari e il De Bernardi-Guarracino), ho confrontato le diverse edizioni e ho scoperto cose divertenti. Prendiamo il De Bernardi-Guarracino. Nell'edizione del 1986 si dice che le repressioni staliniane del 1934-1938 hanno coinvolto "centinaia di migliaia di cittadini sovietici". In quella successiva, pubblicata dopo il 1989, si dice invece che il terrore della famigerata Gpu, prima mai citata, ha colpito in realtà "milioni di cittadini sovietici". Parlando degli effetti del primo Piano quinquennale, il Camera-Fabietti sostiene in un’edizione che i sacrifici della popolazione "furono proporzionati ai risultati raggiunti". Nell'altra invece, quei sacrifici diventano "gravissimi". Quanto a Villari, da un'edizione all'altra fa sparire la parola "socialismo" per sostituirla con "rivoluzione russa" o "società sovietica". Potrei continuare. Si è pensato di aggiornare l'interpretazione della storia contemporanea cambiando qualche parola o frase, ma lasciando inalterato tutto il resto».
C’è a invece qualche esempio positivo di revisione dei manuali scolastici?
«Non ho esempi di revisioni ben riuscite, ma di manuali che sono stati scritti con equilibrio e obiettività. Penso a quello di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, che a quanto mi risulta è, per fortuna, tra i più utilizzati nelle scuole e anche nelle università».