di Mario CERVI
Altro che festa nazionale. La sinistra tutta, ma in particolare quella sinistra estrema che il voto popolare ha cacciato dal Parlamento, vede nell’imminente celebrazione del 25 aprile una rivincita dopo la débâcle, una prova di vitalità, addirittura - ci crediate o no è proprio così - un’occasione per dimostrare che il popolo è con loro, con i signori del tre per cento, e che il berlusconismo raccoglie i rifiuti della società. Questo atteggiamento meriterebbe uno studio psichiatrico, più che politico. Ma è un atteggiamento stagionato. Anche quando la Democrazia cristiana teneva morbidamente le redini d’Italia, il Pci utilizzava il 25 aprile per dare alle sue obbedienze sovietiche una parvenza patriottica.
Fu tuttavia con l’avvento del Cavaliere che la manovra divenne ben più sfrontata. Ricordate il 1994? Anche allora Berlusconi aveva vinto, anche allora il quarantanovesimo anniversario della Liberazione - non una cifra tonda - fu trasformato in un pronunciamento contro il neonato governo. E Bossi, che di Berlusconi era alleato, venne cacciato con le cattive dal corteo di Milano (lo osannarono invece nel corteo del 1995, in segno di gratitudine per il «ribaltone»).
La cosiddetta festa nazionale - uso il termine cosiddetta per l’umiliante ruolo che alla festa stessa è attribuito da girotondini e scalmanati vari - diventa la festa degli sconfitti arroganti, dei trombati altezzosi, dei senza seggio e senza vergogna. Costoro pretendono di essere tra i protagonisti di una celebrazione solenne, e purtroppo si affiancano, con i loro furori isterici, alle Alte Autorità della Repubblica. Tipi come il pensatore Francesco Caruso saranno di sicuro accettati con rispetto nelle liturgie dell’evento, Letizia Moratti vi avrebbe invece raccolto - e con lei il padre invalido - fischi e insulti.
Non so quanto siano autentici i motivi invocati per l’assenza della signora sindaco. So invece che l’assenza è logica. Non vogliono che questa sia una festa «de noantri», vogliono che sia una festa loro. Così come l’hanno ridotta, è meglio che se la tengano. Lo scrivo - è un’ovvietà, ma conviene ribadirla - con pieno rispetto per gli eroismi e i sacrifici di chi in quel periodo - per alcuni aspetti fulgido, per altri orribile - diede il suo apporto coraggioso, e la vita. Ma c’è di che disperare se anche l’Anpi, ossia l’Associazione Nazionale Partigiani, coinvolge il 25 aprile nei suoi iracondi sfoghi antiberlusconiani, e annuncia pericoli per la democrazia. Li conosciamo coloro che parlano continuamente di Apocalisse dietro l’angolo, già tuonavano contro Von Gasper, ossia il grande De Gasperi. Mezzo secolo dopo hanno gridato al fascismo per i successi del Cavaliere. Ma l’Italia rimane saldamente democratica, a loro dispetto e con nostra grande consolazione. Vogliamo davvero riflettere su quel 25 aprile di speranze e di tragedie? Facciamolo pure. Facciamolo con l’animo di chi sente per l’Italia tormentata del 1945 commozione e anche - può capitare - rimpianto, non con l’acredine biliosa di chi quell’Italia remota vuol asservirla alle sue faziosità di oggi. È lecito vedere il 25 aprile sotto angolazioni diverse. Io l’ho sempre ritenuto un avvenimento di alto significato simbolico e morale, consacrato dalla morte di tanti. Ma l’Italia fu liberata dalle truppe angloamericane. Buona parte dei generosi ragazzi che si batterono nella Resistenza sognava una Patria liberata dalla dittatura e da occupazioni straniere, ma una parte importante dei militanti nel Pci voleva per l’Italia una dittatura di segno diverso ma probabilmente ancor più dura della fascista, una dittatura comunista. Nello stesso periodo in cui Milano e Torino venivano liberate, Trieste era occupata dalle truppe titine tra costernazione d’una stragrande maggioranza d’italiani. Ma non del Pci e di Togliatti. Il quale considerava «un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i modi favorire, l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito». Anche questo è 25 aprile, e poi ci fu il sanguinario post-Liberazione. È blasfemo rievocare le luci e le ombre? È infame revisionismo, al quale vanno opposte verità conformistiche e rituali? Lo crede l’Anpi. Io la penso diversamente.