Questa sera sapremo se il tricoore è tronato a sventolare sul Campidoglio, se Alemanno è riuscito nell'impresa più ardua della sua vita politica, se il PDL è riuscito a strapapre Roma alla sinistra di Rutelli e Veltroni. In attesa e intrecciando le dita, ecco un ritratto politico di Gianni Alemanno, il candidato del PDL alla guida della Capitale.
Chii l’avrebbe detto - nemmeno lui, all’inizio di questa sfida - che Gianni Alemanno sarebbe diventato l’uomo che tiene in tasca i destini del centrosinistra italiano, il leader che con la sua rimonta rischia di mandare a casa sia Walter Veltroni che Francesco Rutelli. Se c’è una cosa che paga, nella politica del tempo degli spot è la tenacia, e di tenacia Alemanno ne ha avuta, se è vero che ha trovato il fegato di ricandidarsi dopo la sfida impossibile del 2006, quella, per dirla con le sue parole «In cui in questa città erano tutti veltroniani, ma proprio tutti, persino donna Assunta e Lando Buzzanca». Allora prese poco più di un terzo dei voti, ma non gettò la spugna continuando a fare opposizione.
L’uomo che rischia di strappare Roma al centrosinistra dopo 13 anni di governo ininterrotto arriva a Roma a 12 anni. Figlio di un ufficiale dell’esercito, trascorre la prima infanzia in Puglia, e poi nella Capitale, di cui ha un ricordo trasfigurato: «Ricordo l’improvviso cambio, una città inondata di sole e sorrisi, dove tutti avevano qualcosa da dirti, allegria ed emozioni». Quella, aggiunge oggi, «È la Roma che vorrei ritrovare da sindaco».
Alemanno muove i primi passi nel Fronte della Gioventù, tra i giovani missini, uno che - al contrario di tanti parlamentari che inventano professioni-civetta - nel suo curriculum scrive ancora con orgoglio «militante politico». Da giovane è rautiano: è ribelle, controcorrente, a tratti si oppone ad Almirante, uno capace di gettarsi sotto la macchina del presidente Bush (padre) in segno di protesta. Uno che porta ancora oggi al collo la croce celtica del suo amico Paolo Di Nella, «cuore nero» ucciso a colpi di porfido nella Roma dell’ultimo squarcio degli anni di piombo. Di Nella attaccava manifesti per la riapertura di una villa capitolina degradata. Quando Paolo muore, dopo un terribile coma, la madre regala quel ciondolo a lui, che lo aveva riportato alla politica dopo un periodo di riflusso.
È curioso che oggi, a sollevare contro Alemanno il teorema «antifascista» sia un ex radicale che era assiduo ospite dei convegni missini nei primi anni ’80. Ed è curioso che al ballottaggio di Alemanno sia in qualche modo collegato anche il destino di Veltroni, uno degli avversari che il candidato del centrodestra stima di più: «Non condivido il suo buonismo di governo, ma sul piano umano è un signore». Se non altro perchè Alemanno e Veltroni duellarono senza nessuno sconto, ma furono protagonisti dell’unica cerimonia «bipartisan» della storia recente, l’intitolazione al «missino ecologista» di una via (nella villa per cui si era battuto). Ed è una altro paradosso delle geometrie politiche che a ventilare la paura di «una marea nera» sulla capitale ora sia quello stesso Massimo D’Alema che ai tempi in cui era all’Agricoltura disse pubblicamente di lui «è il miglior ministro del governo Berlusconi». Ci scherza, oggi Alemanno: «Chissà, lo ha detto davvero o abbiamo sognato?». In realtà, con la sua passione per la montagna e la sua mania agonistica per le arrampicate sulle pareti di roccia, con la sua politica in difesa dei prodotti nazionali, a favore delle coltivazioni biologiche e a tratti persino anti-ogm, Alemanno piace anche ai Verdi. Le battaglie ambientaliste erano filiazione diretta dell’ecologismo portato, con la fondazione di «Fare verde», nel suo Fdg. Così come il discorso sulla «memoria condivisa» e la «fine dell’odio» è prosecuzione di una serie di strappi che partono dall’esperienza di leader dei giovani missini. Aveva fatto scalpore il convegno (e relativo libro, Pagine strappate) in cui Alemanno aveva aperto il dibattito sul tabù (a destra) del sessantotto. Così come avevano stupito le aperture con cui il suo Fdg si era alleato per le elezioni universitarie con i cattolici di Comunione e liberazione. Da ministro Alemanno diventa in qualche modo simbolo: «il più identitario» di An, quello che infuocava il congresso di Bologna gridando «Io non me li sono scordati i ragazzi che andavano con il tricolore in piazza cantando Europa nazione!». Il riferimento culturale di Alemanno era la Nuova Destra che scopriva saghe tolkeniane, campi Hobbit, musica alternativa: qualcuno lo ricorda a festeggiare i solstizi nei boschi.
Quando il regista Paolo Virzì nel suo Caterina va in città crea il personaggio del ministro «Elio Germano», moderno, pragmatico che si vergogna dei vecchi camerati, tutti avevano pensato a lui. E lui aveva risposto con una alzata d ingegno: «Macchè, io non mi vergogno di nulla, e mi identifico con Caterina. Perchè come lei sono uno fuori dai giochi». Intanto in An lasciava il suo compagno di corrente Francesco Storace per tornare «finiano». Nella sua campagna elettorale spiazza tutti. Da un lato cita come modello il sindaco comunista Petroselli («voglio essere come lui, in mezzo alla strada e nei cantieri»), dall’altro punta tutta la sua campagna sulla sicurezza e sulla mano forte contro i clandestini («voglio l’espulsione di 20mila pregiudicati»). Infine tranquillizza i moderati: «Se vinco non arrivano i marziani, non farò nessuna purga». Dice che sogna una festa del cinema con meno vip americani e più promozione italiana, che vuole espandere la città verso il mare, che vuole grandi segni architettonici non «gli architetti alla Meyer scelto da Rutelli come un imperatore».