editoriale di Maurizio BELPIETRO da Panorama in edicola
Dopo la sconfitta del 13 e14 aprile il Partito democratico si era consolato pensando che la causa della batosta fosse da ricercarsi nell’incapacità della sinistra di parlare al Nord. Arginando lo smottamento elettorale nel solo Settentrione e convincendosi che l’insuccesso siciliano fosse dovuto alle clientele e quello campano alla “monnezza”, i vertici del Pd cercavano in qualche modo di ridurre la portata della débâcle. Ma adesso che è caduta anche Roma, il terremoto non può più essere spacciato per una leggera scossa.
La frana che ha cancellato governo e amministrazioni rosse viene da lontano e non solo dal Nord. La rovina ha molti padri, che vanno da Romano Prodi a Fausto Bertinotti, da Walter Veltroni a Francesco Rutelli, da Massimo D’Alema ad Alfonso Pecoraro Scanio: nessuno escluso, tutti hanno dato il loro piccolo contributo. Anzi: in qualche caso l’apporto è stato grande, ma sarebbe troppo facile liquidare il fallimento del Pd appiccicandolo sulle spalle di uno solo. A trovare un capro espiatorio si fa in fretta, per capire ci vuole tempo.
Alcuni giornali hanno scritto che la responsabilità è da ricercarsi nella mancanza di identità del Pd, altri hanno addirittura tirato in ballo la repubblica di Weimar, prefigurando un’Italia spaventata sull’orlo dell’abisso. Nessuna di queste analisi appare convincente. Io credo piuttosto che sia crollato il modello su cui il Pci prima e i suoi eredi poi hanno retto per oltre sessant’anni. È finita l’egemonia culturale della sinistra, quel dominio che per un lungo periodo è stato esercitato sulla nostra società attraverso i giornali, la tv, i libri, il cinema, la scuola. Si è esaurito un sistema che si autoalimentava: la politica influenzava la cultura, la cultura influenzava i cittadini. O quanto meno lo pensava.
La macchina del consenso costruita in oltre mezzo secolo si è inceppata. E il meccanismo si è rotto proprio a Roma, la capitale di questo apparato. È qui che si era affermata la politica dell’effimero, qui che Veltroni aveva affinato un modello di amministrazione che esisteva solo sui giornali e in tv, non in città, non nelle periferie. Ma a forza di descrivere una realtà che non esisteva, la sinistra ha commesso l’errore di crederci. Qualcuno ha dato la colpa ai conduttori tv accusandoli di non aver più alcun contatto con la realtà. In parte è vero. I vertici dei Ds prima e del Pd dopo hanno scambiato le piazze televisive per quelle reali, diventando vittime del loro stesso sistema. Così hanno creduto che il problema dell’immigrazione fosse inventato dalla Lega e quello della sicurezza dalla destra. Così hanno continuato a parlare di sviluppo a un Paese che negli ultimi due anni hanno contribuito a far avviluppare su se stesso.
Il Pd è un’idea che ha semplificato lo scenario politico, ma è un progetto privo di un vero programma, senza un nuovo leader ma con i soliti leaderini. Ciononostante i mass media lo hanno dipinto come un grande processo riformatore, una svolta storica, non accorgendosi che storica era la clamorosa sconfitta che si preparava. La grande illusione si è alla fine rivelata per quel che era.
Dentro il Partito democratico ora c’è chi sogna di prendersi la rivincita contro il segretario. Dicono che Pierluigi Bersani, spinto da D’Alema, si stia già preparando. Non so se sia vero, ma sono certo che le notti dei lunghi coltelli non servono. Qui è un intero gruppo dirigente che è arrivato al capolinea, anche se si rifiuta di scendere dal treno. Invece sarebbe utile che si aprissero le porte, oltre alle finestre. Aria nuova, vertici nuovi. Sarebbe utile, non solo alla sinistra, “ma anche” al Paese.