DI gaetano Quagliariello - senatore del PDL
Potrebbe non essere affar nostro e invece lo è. Adesso cosa succederà a sinistra? Se si ha ragione nel sostenere che il voto del 13 e 14 aprile ha costuito la premessa per una svolta nel sistema politico, non si può restar fermi a guardare la sinistra cuocere nel brodo della sconfitta.
Si è sostenuto che il risultato elettorale di tre settimane fa abbia definitivamente chiuso la transizione inauguratasi nel 1989. I vincoli e le abitudini che si erano sedimentati nel corso della "guerra fredda" hanno perciò finito d'influire sul voto degli italiani. L'elettorato è tornato ad esprimersi naturalmente, come forse aveva fatto solo nel lontano 1948. E questo raffronto, se si guarda ai rapporti di forza tra i due schieramenti, assume persino una consistenza numerica: circa dieci punti percentuali di distacco. Tra le due date c'è, però, una differenza fondamentale dalla quale io credo dipenda oggi il nostro atteggiamento nei confronti della sinistra.
Il voto del 1948 segnò la fine della contesa sulla parte del mondo nella quale l'Italia avrebbe dovuto collocarsi. Da allora iniziò a mettersi in moto quel sistema di precauzioni e di regole non scritte che avrebbe reso storicamente possibile la durevole appartenenza del nostro Paese al mondo atlantico, pur in presenza del Partito Comunista più forte dell'Occidente. Così, a partire dal 1953, l'elettorato non ha più avuto la possibilità di esprimersi liberamente né di determinare più di tanto l'indirizzo politico della nazione. A lungo per una gran parte degli italiani "voto utile" ha significato il suffragio a favore della Democrazia Cristiana, come garanzia e conferma di ciò che si era fissato nel 1948. E forse persino più a lungo la centralità sistemica dei partiti ha garantito che un voto sociologicamente "di destra", espressione di un anti-comunismo avvertito a livello esistenziale ancor prima che a livello ideologico, fosse comunque tramutato in una politica progressista e antifascista.
Quando poi, nel 1994, i vincoli antichi vennero finalmente meno, una inesorabile rimonta dei partiti all'interno delle coalizioni ha fatto sì che le vecchie abitudini, cacciate dalla porta, rientrassero in dosi massicce dalla finestra, pregiudicando i risultati della seconda parte della Repubblica. Fino a che il voto del 2008, rompendo l'incantesimo, ha riportato i comportamenti degli elettori alla naturalezza di sessant'anni fa.
Questo risultato - ed è qui la differenza fondamentale - promette però effetti speculari rispetto a quelli sortiti dal 1948. Invece di inaugurare una nuova stagione di "voto necessitato", di blocchi del sistema, d'immobilismi, fa intuire che il processo di secolarizzazione delle scelte degli elettori sia giunto alle sue più estreme conseguenze. Se a Roma viene eletto sindaco Alemanno contro Rutelli, nonostante la croce celtica al collo a testimonianza della sofferenza di una storia vera, nonostante il 25 aprile e i tentativi di strumentalizzazione subiti dalla comunità ebraica, questo vuol dire che gli elettori sono finalmente liberi: scelgono in modo empirico e approssimativo sulla base dei programmi, della credibilità dei candidati, del peso mutevole delle contingenze. Questa volta hanno fatto stravincere il centro-destra. Ma nessuno può farsi soverchie illusioni. Se li si deluderà, non ci sarà bisogno d'attendere quarant'anni per essere scalzati dal potere e tornare ai tempi magri appena trascorsi.
Affinché questo cambiamento epocale possa definitivamente compiersi, c'è però bisogno di una sinistra che lo assecondi, portando a termine sul versante delle istituzioni la rivoluzione che si è verificata nelle urne e, contemporaneamente, incalzando l'attuale maggioranza per dimostrare l'inefficacia della sua azione riformatrice al fine di convincere gli elettori d'essere in grado di far meglio.
E' pronta la sinistra a questo fondamentale cambio di passo? L'impressione è che, nonostante la "cacciata" dell'estrema dal Parlamento, le sinistre siano rimaste due. C'è quella di Veltroni che in teoria sembrerebbe la più preparata a intraprendere il cammino ma che poi, nella pratica, appare insostenibilmente leggera: priva di classe dirigente e priva di tenuta. C'è quella di D'Alema, assai più strutturata, ma refrattaria al nuovo che si annunzia. Per questo essa continua a parlare della legge elettorale che ha reso possibile la rivoluzione copernicana come di una sciagura. E per questa stessa ragione cercherà di stringere accordi con Casini e persino di eccitare i riflessi partitocratici della Lega, puntando sul ritorno a una concezione tolemaica, per la quale il fulcro della democrazia non si collochi nella scelta semplice e diretta del corpo elettorale.
E' più che probabile che queste due sinistre entreranno in conflitto tra loro. Ovviamente, non sta a noi del centro-destra prendere posizione in un confronto che sarà fatto anche della valutazione dei meriti, dell'affidabilità, delle classi dirigenti. Quel che a noi tocca, invece, è chiarire con atti politici conseguenti la nostra assoluta indisponibilità a fermare la modernizzazione in atto, e la volontà di portare invece fino in fondo il processo che il 13 e 14 aprile si è con tanta chiarezza palesato.
In tal senso, dovremo offrire lealmente una sponda a quella sinistra che vorrà affidare alla laicizzazione dell'elettorato le sue legittime aspettative di rivincita, facendo tutto ciò che è possibile affinché non prevalga tra i nostri avversari la tentazione di guardare indietro, verso il tempo delle interdizioni, degli ostruzionismi preconcetti, dei veti ideologici.