Proponiamo l’intervento del senatore Marcello Pera, pronunciato nell’aula del Senato, nel corso del dibattito sulla fiducia il 15 maggio 2008
"Signor Presidente, in primo luogo, con il suo permesso, desidero farle personalmente i miei auguri di buon lavoro ed esprimerle la mia soddisfazione di vederla presiedere i nostri lavori. Complimenti.
Signor Presidente del Consiglio, all’inizio del suo discorso lei ha detto che il lavoro che spetta a questo Governo richiede ottimismo e spirito di missione. Ed ha anche aggiunto che occorre sconfiggere il pessimismo paralizzante che circola oggi in Italia, come pure - sono parole sue - il pessimismo rumoroso di chi non ama l’Italia e non crede nel suo futuro. Tutti i punti del programma che lei poi ha sinteticamente ricordato hanno precisamente questa finalità.
Ora non mi soffermo su questi punti perché considero le misure da lei indicate rispondenti alle esigenze del nostro Paese e sono convinto che questo Governo, così circondato di fiducia ed aspettative, così netto nelle intenzioni e anche così determinato, anche perché spesso così invidiabilmente giovanile, corrisponderà alle promesse e realizzerà il suo compito.
Desidero piuttosto soffermarmi sulla necessità che lei ha indicato di battere il pessimismo. Questo significa - secondo me - sconfiggere una crisi che da tempo attraversa il nostro Paese. Di questa crisi noi conosciamo gli aspetti principali: una Costituzione non più adeguata ai tempi moderni; regolamenti parlamentari adatti ad un’epoca tramontata; un sistema politico che solo adesso dà i primi segni della vera alternanza. Ciò accade non per virtù della legge elettorale, la quale era e resta carente perché premia i partiti, punisce gli elettori e non favorisce la rappresentanza territoriale degli eletti, ma a causa di due fattori. Il primo fattore è la lungimirante decisione dell’onorevole Veltroni di dare vocazione maggioritaria al Partito Democratico e il secondo è l’altrettanto lungimirante decisione sua, signor Presidente, di seguire questa stessa strada. E se il clima nuovo, che è mancato in altre legislature, davvero si realizzerà, senza che ne venga alterato o edulcorato il rapporto dialettico tra maggioranza ed opposizione, penso che questi aspetti della crisi italiana saranno finalmente corretti.
Ma c’è un’altra crisi su cui desidero soffermare la sua e la nostra attenzione, che considero morale o etico-civile. Il pessimismo paralizzante di cui lei ha parlato, riguarda una questione apparentemente ineffabile e impalpabile, ma invece ben presente ai nostri cittadini: l’identità. Chi siamo noi? In che cosa crediamo noi? Abbiamo noi principi o valori che riteniamo sacri, fondamentali, inviolabili oppure, per usare l’espressione cara al Papa Benedetto XVI, non negoziabili?
Queste domande, le cui risposte noi pensavamo da tempo acquisite, sono rinate quasi improvvisamente in varie occasioni recenti. Quando siamo stati minacciati dal terrorismo islamico, quando ci siamo posti il problema di come meglio integrare coloro che vengono da noi, quando abbiamo inseguito vanamente, perché vanamente e vacuamente l’avevamo perseguito, l’obiettivo di scrivere una Costituzione europea e quando siamo stati investiti dalle richieste, anche in quest’Aula, di cosiddetti nuovi diritti in tema di matrimonio, famiglia, procreazione, vita e morte. Ora, desidero osservare che la questione dell’identità non è una raffinata specialità intellettuale, ma una questione che tocca la vita degli italiani ogni giorno e dalla cui risposta dipendono molte cose. Dipende la nostra collocazione internazionale, perché se stiamo con gli Stati Uniti d’America e con Israele è perché intendiamo mantenere una certa nostra identità, dipende la nostra relazione con gli altri Paesi, perché se chiediamo, come dovremmo sempre più chiedere, reciprocità di diritti, in particolare in tema di religione, è perché consideriamo la nostra identità un bene da salvaguardare, dipende la nostra politica dell’integrazione, perché se chiediamo che gli immigrati rispettino i nostri valori è proprio perché li consideriamo come identitari, e dipende la nostra politica dell’educazione, perché se decidiamo che occorre insegnare la nostra storia, i nostri classici, la nostra tradizione è perché siamo convinti che non dobbiamo perdere la nostra identità.
Oggi sulla questione dell’identità l’Italia è divisa. Da un lato c’è una cultura dominante, anche se più per inerzia che per forza intellettuale, dall’altro c’è una maggioranza di italiani che non la accetta ma che è costretta a subirla sui giornali e sulle televisioni anche pubbliche, nelle scuole, nelle università, nelle case editrici e negli istituti di formazione. Questa cultura, come è noto, predica il relativismo dei valori e, mentre considera i sistemi di valori, le culture e le civiltà tutte ugualmente rispettabili, nega valore proprio ai nostri stessi valori. E il laicismo è l’altra faccia di questo relativismo. Noi abbiamo sì buoni principi umanistici, scritti anche nella nostra Costituzione - ammette il laicista - però, - aggiunge - non dovremmo esserne fieri, non dovremmo esaltarli e ancor meno dovremmo esportarli, perché non dobbiamo essere arroganti e dogmatici. E intanto, proprio il laicismo è arrogante e dogmatico fino al punto di accusare la Chiesa di interferire con lo Stato perché parla da Chiesa, o fino al punto di impedire al Papa Benedetto XVI di tenere una lezione in una Università italiana perché pubblica e laica.
Ora qui credo stiano le fonti della crisi morale o etico civile dell’Italia e non solo di essa, perché l’Europa intera è investita dallo stesso clima e sulla questione della identità stiamo rischiando che si avveri, se già non si è avverata, la profezia di un altro grande Papa, Giovanni Paolo II, il quale ci mise in guardia dai rischi della alleanza tra relativismo e democrazia. Infatti, mettendo ai voti, come accade nei Parlamenti europei e anche nel nostro, gli assi portanti della nostra tradizione, considerando, come anche in quest’Aula si è sentito dire, conquiste civili l’aborto, l’eugenetica, l’eutanasia e la sperimentazione sugli embrioni, chiudendo gli occhi, come già accade in Europa, sulla poligamia e sulla pedofilia, noi ci sentiamo onnipotenti - votiamo! - e padroni di noi stessi, ed invece seppelliamo il nostro futuro perché nascondiamo i valori del nostro passato.
Questa crisi morale provoca disagio, incertezza, insicurezza, ansia e anche paura e trasforma persino la impostazione dei problemi, come avviene quando tanti ritengono che la questione della integrazione e della sicurezza possano essere trasferite soltanto nelle mani dell’agente di polizia o del magistrato.La crisi morale genera un bisogno di punti di riferimento cui oggi la Chiesa cattolica dà una risposta e non dovremo lasciarla sola, signor Presidente, con l’argomento che la religione è separata dalla politica, perché se così davvero fosse tutta la nostra politica si ridurrebbe ad una cieca amministrazione di interessi senza coordinate morali. Concludo. Signor Presidente, so bene che per questa crisi morale non ci sono misure specifiche che lei possa proporre, ma vi sono interventi indiretti nel campo della educazione, dei programmi scolastici, della famiglia, della integrazione, delle relazioni sociali, della legislazione bioetica e della cultura che possono aiutarci a superarla e che sono nella sua disponibilità. Sono certo, signor Presidente, che questa è anche la sua preoccupazione ed è una ragione in più per dare a lei la mia fiducia e augurare buon lavoro al suo Governo.