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 AGLI ITALIANI FA PAURA IL NUOVO Data: 20/05/2008
Appertiene alla sezione: [ Opinione ]
L'editoriale di Maurizio Belpietro da Panorama in edicola

Si discute molto, di questi tempi, su come far progredire l’Italia e lo stesso Silvio Berlusconi ha messo la questione al centro del suo intervento in Parlamento martedì 13. Sull’onda dell’esperimento francese, intellettuali e politici si domandano se una commissione bipartisan possa, anche da noi, «liberare la crescita», approfittando del clima di concordia instaurato dal cambio di governo. Le opinioni sono tante. C’è chi parte dalla scuola, chi dalle infrastrutture, chi dalla semplificazione di norme e procedure che penalizzano ogni impresa. Tutti suggerimenti azzeccati e giustificati. Mi permetto di aggiungerne uno che credo meriti di non essere dimenticato. Oltre a intervenire su istruzione, strade e leggi, c’è bisogno di agire sugli italiani, i quali a parole vogliono far crescere il Paese, sottraendolo alle inefficienze delle caste, ma nella sostanza sono i primi a non volerlo fare. O ad averne paura.
Per spiegare meglio, racconterò due storie che mi è capitato di sentire un paio di giorni fa. La prima è ambientata a Saline Ioniche, piccolo comune calabrese a poca distanza dal mare. Qui, negli anni 70, il boss della Liquichimica, Raffaele Ursini, tentò di impiantare una fabbrica. Doveva occupare molti operai. In realtà il lavoro non lo ha mai dato, lo stipendio sì, modesto, ma garantito dalla cassa integrazione.
Ora un gruppo energetico svizzero vorrebbe costruire a Saline una centrale a carbone, impianto che occuperebbe alcune centinaia di persone. Però la popolazione non ci sta: capeggiati da verdi e rifondatori comunisti, i cittadini temono l’inquinamento, anzi l’impatto ambientale in una zona da anni condannata al degrado. Fa niente se il progetto prevede emissioni inferiori del 50 per cento rispetto a quelle consentite per legge: i comitati anticentrale sono convinti che l’impianto a carbone sia pericoloso e in nome «di una battaglia globale contro i mutamenti climatici che stanno già colpendo la salute e l’economia» (cito testualmente) sono pronti alle barricate.

Ma se il carbone non va bene, non è ben visto neppure il biocarburante, che si può produrre con l’impiego di enzimi naturali e richiede impianti per nulla pericolosi, più simili a quelli di una distilleria di grappa che a quelli di una raffineria di petrolio. La fabbrica di Rivalta Scrivia dovrebbe trasformare il mais in bioetanolo, senza emissioni tossiche o impiego di metalli. L’idea però non piace agli abitanti, i quali per avversarla prima hanno tirato in ballo i rischi per l’ambiente, poi problemi di collocazione (la fabbrica oscurerebbe la vista del Monte Rosa, che sta a 200 chilometri di distanza), quindi lepri e fagiani (sarebbero disturbati dall’andirivieni di camion), infine la fame nel mondo: l’impianto trasformerebbe in benzina ecologica produzioni che potrebbero essere impiegate anche in campo alimentare, sottraendole alla tavola dei paesi poveri.
Le due storie nascono dalla stessa cultura e dicono di questo Paese più di tante indagini sociologiche. In Italia sono quasi 200 le opere pubbliche bloccate dalla sindrome Nimby, acronimo inglese di «Not in my back yard», non nel mio cortile. E, come si vede, l’opposizione al progetto ha poco a che fare con l’inquinamento, piuttosto con il timore del nuovo.
Non c’entra il carbone o il mais: è una sorta di terrore della crescita. Il nostro è un Paese che ama la comodità, ma non la modernità. Che vuole il progresso, ma senza i suoi costi.
Per far crescere l’Italia più che una commissione Attali servirebbe dunque un’istituzione che facesse ragionare gli italiani. Sono essi, per primi, a dover liberare la crescita. Soprattutto dai loro pregiudizi e dalle loro paure.

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