“Mi chiamo Silvio Berlusconi. Ho vinto a valanga le elezioni. Ho 72 anni e molta energia da spendere. Ho appena costituito un governo compatto e asciutto, ringiovanito e sulla carta docile. Entrai in politica dicendo che professavo la religione del maggioritario: “O di là o di qua”. Con qualche fatica, e dopo molti anni, posso dire: fatto. Sono il detentore del record di stabilità di un governo. Nessuno insidia la mia leadership nel mio campo. Per il leader del governo ombra sono “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”. Il Cavaliere nero e il conflitto di interessi come foglie di fico per l’antiberlusconismo sono solo un ricordo. Che volete che faccia se non aprire una nuova stagione politica e chiedere che opposizione e maggioranza, l’una per controllare e l’altra per decidere, si rispettino reciprocamente?”.
La politica è più semplice di quanto si creda. Lo hanno capito quelli dell’estrema sinistra, smarriti di fronte all’abile “manifesto di una nuova egemonia” di cui con un residuo di lucidità comprendono le ragioni profonde. Lo ha capito Walter Veltroni con la sua compagnia del Partito democratico, che si tiene prudente alla verifica dei fatti, davanti al Berlusconi ascoltato alle Camere. Non lo capisce il sulfureo e troppo malizioso Massimo D’Alema, che lamenta il passaggio del premier da uno spirito rivoluzionario e liberale quasi “eversivo” al doroteismo. Di politici così gli americani dicono: “He outsmarts himself”, è così furbo che si impappina nei suoi disegni.
Berlusconi non è stato affatto generico sui contenuti dell’azione di governo. Ha cercato di spiegare che il metodo della politica è il primo dei contenuti. Che la decisione e il modo in cui alla decisione si perviene è il problema dei problemi. L’insofferenza dell’opinione pubblica verso il pasticcio delle coalizioni rissose e del teatrino di guerra civile cui abbiamo assistito per anni, e la riforma istituzionale fatta con il voto che ha ridotto il numero dei partiti e premiato la semplificazione parlamentare sono l’unico vero elemento di novità della situazione italiana. Il Berlusconi del lieto fine, e con lui il paese che dirigerà per cinque anni almeno, vince o perde a seconda che si sia in grado di tenere in pugno la situazione e di creare consenso sul modo di governare il Paese.
La base di questo progetto è costruita sui fatti. Non c’è più un centro mobile, presente in entrambe le coalizioni, che spinge verso l’instabilità perché non riconosce la regola del bipolarismo e dell’alternanza così come si è definita nel passaggio dalla Prima alla Seconda o alla Terza repubblica (i democristiani sono scomparsi dai due poli).
L’estrema sinistra è fuori dal Parlamento. La sinistra di opposizione si qualifica come riformista e liberale, predica una società e un’economia aperte, cavalca i temi bersaniani delle liberalizzazioni, mette avanti le esperienze di governabilità moderata dei sindaci e dei governatori, nomina ministri ombra gli industriali della Confindustria, dice che bisogna pagare meno tasse per pagarle tutti. Dall’altra parte il liberismo economico ha cambiato faccia. Giulio Tremonti ha dato un timbro nuovo all’ideologia della destra liberale italiana. La protezione dei ceti colpiti dalla globalizzazione dei mercati è un impegno comune. E tutta la faccenda ha avuto perfino aspetti caricaturali quando, in campagna elettorale, le due forze in campo si sono accusate di aver copiato ciascuna il programma dell’altra.
Ci sarà ancora ampio spazio per litigare, per il dissenso, per la lotta. Ma è sul metodo, e sulle riforme istituzionali in particolare, che si giocherà il senso della legislatura, la riconquista di significato della politica e del potere pubblico che deve ritrovare la fiducia dei cittadini e strappare un livello decente di crescita dell’economia e di ristabilimento del controllo politico sulla società dei coriandoli. Il discorso di Berlusconi è tutto lì, semplice semplice.