Conosco l’attore Luca Barbareschi da tempo e mi è molto simpatico. È estroverso e intelligente e quando lo incontro mi mette sempre di buon umore. Non so però se sia adatto a fare il politico. Se devo dedurre da alcune sue recenti dichiarazioni, direi di no. Intervistato dal Magazine del Corriere della sera, il conduttore di tanti fortunati programmi tv ha affermato che il centrodestra dovrebbe occupare la Rai: «Abbiamo vinto. E allora mettiamo i nostri uomini nei ruoli chiave, come ha fatto il centrosinistra». Luca, che a teatro ha portato in scena Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dovrebbe ricordare ciò che il nipote Tancredi Falconeri disse allo zio, il principe di Salina: «Bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’ è».
Non vorrei dunque che Barbareschi, sollecitando un generale cambiamento, tra qualche mese, o qualche anno, si ritrovasse a constatare che nulla è mutato, ossia che la politica continua a occupare la televisione di Stato, senza curarsi di fare buona informazione, soprattutto senza preoccuparsi troppo della sua missione, che alla fin fine è il servizio pubblico, ragione per cui la Rai ogni anno reclama il pagamento del canone dalle famiglie italiane. Lo scrivo ripensando all’ esperienza degli anni scorsi, quando la Casa delle libertà vinse le elezioni. C’ era grande voglia di voltare pagina, di metter mano ai programmi e ai talk show: si intendeva dimostrare che il Polo poteva cimentarsi nel tanto invocato giornalismo di qualità, che anche a destra c’ è cultura e ci sono professionisti in grado di fare approfondimento. Alcune trasmissioni vennero allestite in fretta e furia, altre vennero cancellate senza saper bene con che cosa sostituirle. Se debbo trarre un bilancio da quella stagione, mi tocca riconoscere che la Cdl ha avuto tra le mani la più grande e costosa azienda culturale del Paese e non ha saputo bene cosa farne. Nessuno dei salotti tv inventati in quegli anni ha resistito nel tempo, nessuno dei format ha superato la prova degli ascolti. L’ informazione ha continuato a essere quella di sempre: faziosa in alcuni casi, subalterna alla politica in altri, raramente buona. Neppure le intenzioni di sottrarre la Rai, o almeno una sua parte, all’ influsso romanocentrico hanno fatto molti passi avanti: le ambizioni della Lega di avere una rete a Milano sono rimaste sulla carta e il partito di Umberto Bossi si è dovuto accontentare di trasferire nel centro di produzione lombardo alcune trasmissioni, con un andirivieni di ospiti e conduttori, ma senza riuscire a imporre il federalismo televisivo che aveva in animo. L’ occupazione della Rai negli anni di Berlusconi in realtà è stata più virtuale che reale: se ne è discusso molto sui giornali e nei corridoi di Saxa Rubra, si sono lanciate crociate anticensura, ma lo stile di viale Mazzini è rimasto uguale. Con la Casa delle libertà al governo, la tv di Stato ha continuato a essere po’ ruffiana con la politica e un po’ sprecona, molto commerciale e poco di servizio. Non dico che tutto in Rai sia male e neppure che tutto sia da buttare: tutt’ altro. Non vorrei però che qualcuno si illudesse: non basta occupare dei posti, bisogna cambiare i metodi. Il servizio pubblico non ha bisogno né del Travaglio di destra né del Santoro del Popolo della libertà. Semmai, solo della libertà.