“Molti pensano che solo uno Stato debole possa sposarsi con la democrazia. Costoro temono eventuali rafforzamenti del livello di statualità perché li interpretano tout court come manifestazioni di tendenze autoritarie in atto. Una democrazia si differenzia invece da un regime autoritario perché distingue in modo sufficientemente chiaro, sulla base di leggi e procedure codificate, ciò che è negoziabile e ciò che non lo è. E ciò che non è negoziabile (le decisioni assunte da organi democraticamente eletti) viene imposto. Anche con la forza, quando occorre.”
Così scriveva Angelo Panebianco sul Corriere della sera in un editoriale di un paio di giorni fa a proposito delle risposte alla domanda di un più alto livello si statualità che, la fermezza contro le proteste di Napoli e la tolleranza zero contro l'immigrazione clandestina, hanno dato. Un segnale forte che per altri versi è presente nella guerra alla sindrome del nimby (acronimo delle parole inglesi not in my back yard, letteralmente non nel mio cortile, con cui si indica la protesta diffusa contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere ricadute negative sui territori su cui verrebbero costruite), non solo sul fronte delle discariche, ma anche su quello delle infrastrutture e del nucleare. Una netta inversione di tendenza rispetto alla politica del no che monopolizzava l'azione del precedente governo. Una drastica riduzione, per ora solo enunciata, di quella divaricazione tra le affermazioni dei diritti e le assunzioni di responsabilità in una prospettiva che privilegia l'interesse generale.
Come è stato detto da più parti, oltre le singole tematiche trattate, il segnale che è giunto dai primi provvedimenti del governo Berlusconi è andato nella direzione di una rottura con il passato, di una fine perentoria della latitanza dello Stato che ha fatto registrare attorno al decisionismo dell'esecutivo un vasto consenso, e non certo quello che Edmondo Berselli su Repubblica ha definito straordinario conformismo verso il nuovo potere.
Un conformismo che non esiste e non mi riferisco solo all'ostruzionismo sulla cosiddetta norma salva rete4, ma soprattutto all'atteggiamento che le opposizioni hanno avuto proprio sul decreto sull'emergenza rifiuti e sugli scontri che ne sono seguiti. La sinistra extraparlamentare, quella che durante il governo Prodi sosteneva che tutte le proteste a Napoli erano organizzate e fomentate dalla camorra, ha affermato che in quella occasione è emerso il volto reazionario del governo che per mezzo delle forze dell'ordine manganellava cittadini inermi. Il Partito democratico brancola nel buio ed è costretto a fare buon viso a cattivo gioco su un tema sul quale ha mostrato assoluta incapacità di intervento.
In realtà sull'emergenza rifiuti il maggiore livello di statualità, la maggiore autorevolezza dello Stato, si misura sul delicatissimo equilibrio tra la mano ferma contro uno scandalo costato 780 milioni ogni anno nell'ultimo decennio, contro quel sistema di potere che punta al protrarsi dell'emergenza, e la linea del dialogo e della collaborazione con istituzioni e cittadini promossa dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Bertolaso. Un equilibrio che rischia di saltare in ogni momento non solo per la oggettiva, estrema difficoltà della questione da risolvere, ma anche a causa di inchieste giudiziarie ad orologeria.
In Campania lo Stato redivivo si trova a combattere contro quel partito del no che troppe vittorie ha conseguito nel corso degli ultimi anni. La sospensione dei lavori per il termoutilizzatore di Acerra, la lotta perché le discariche sorgano sempre in un posto diverso da quello previsto, sono chiari sintomi della sindrome del nimby.
Una sindrome contro la quale il governo sta combattendo su più fronti, compreso quello energetico. Possiamo dire agevolmente che la prima contrazione della malattia del nimby avvenne proprio in questo ambito nel 1987 con la vittoria ai referendum del fronte contrario al nucleare. Si preferì chiudere uno dei settori di eccellenza del nostro Paese, per scaricare il dovere di produrre energia su altri. Il risultato è che, dopo vent'anni, noi acquistiamo a caro prezzo energia, in gran parte nucleare, prodotta da centrali che sorgono a pochi chilometri dal confine italiano. Oltre al danno economico, questa scelta ha provocato anche la beffa ambientale: l'abbandono del nucleare ha fatto ripiegare sulle fonti tradizionali, petrolio e gas innanzitutto, con un'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera molto più elevata di quanto sarebbe successo invece se si fosse mantenuto il nucleare.
Quando il ministro dello sviluppo economico, Scajola, parla di avvio della costruzione di centrali nucleari di nuova generazione entro il 2013, dimostra che l'autorevolezza dello Stato si manifesta anche tracciando una via alternativa rispetto all'immobilismo dei no, una via che il governo ha tutte le intenzioni di percorrere anche per quanto riguarda il settore strategico dell'energia.
La costruzione di termoutilizzatori, di centrali nucleari, di infrastrutture sono al pari del federalismo, della riduzione della pressione fiscale, delle politiche per la famiglia e i salari tutti elementi di primaria importanza per quella rinascita dell'Italia a cui la presidente di Confindustia, Marcegaglia ha fatto cenno durante il suo discorso di insediamento. Tutti elementi che, c'è da augurarselo, testimonieranno la presenza autorevole dello Stato contro i miopi interessi particolaristici. Luciano Lomangino