“Guido basta, così non va… centinaia di sindaci cafoni che rivendicano diritti, tutti che pretendono e se la prendono con noi… ammucchiamo balle e facciamo mucchi di merdaccia… chi ci ha portato in questa storia merita la morte… dobbiamo trovare il coraggio di andarcene… stasera che sono scoglionata vedo le cose come sono, senza eroismi”. Marta Di Gennaro, la vice di Guido Bertolaso, commissario ai rifiuti di Napoli, parlò così al suo capo in un giorno qualunque del 2007.
Invece di capire la logica di questa disperazione civile del funzionario dello Stato alle prese con la società più pazza e primitiva del mondo, e con un contesto di corruttele sociali che ha creato la più grottesca crisi di decisione amministrativa della politica mondiale, la magistratura nel suo sospetto formalismo ha messo la funzionaria agli arresti domiciliari. Lo ha fatto nel corso di una vasta retata che non si è negata nemmeno un avviso di garanzia al prefetto della città, e che è scattata nel momento preciso in cui lo Stato stava per smantellare le barricate e i piagnistei che lo sfidavano da almeno 2 anni con successo.
Smantellare lo Stato in nome della legalità, puntellando invece le barricate del sociale e dell’antipolitica, e usando le intercettazioni e altri metodi farlocchi come clave, è d’altra parte una delle attività preferite della falange militante della magistratura inquirente da circa 15 anni.
Il meccanismo usato dai pm che rimproverano all’apparato pubblico impegnato contro i rifiuti di non avere funzionato come un orologio svizzero è come un copione di teatro popolare di strada. Per anni a Napoli e in Campania lo Stato fallisce senza speranza. Falliscono la Regione, il Comune, i commissari ai rifiuti; falliscono i carismi e le leadership locali, i governi nazionali, i loro prefetti, le forze che gestiscono l’ordine pubblico; trionfano invece le proteste e chi le cavalca, gli interessi di società che si organizzano e si barricano fino al più minuto e chiassoso dei particolarismi, che inventano nuove retoriche e letterature di falso autogoverno, per finire immancabilmente nella “merdaccia”.
La questione dei rifiuti diventa il dossier privilegiato dell’informazione mondiale, il buco della serratura attraverso cui si giudica l’Italia al tavolo della politica estera e della politica economica. Il dossier diventa il primo capitolo di una dura campagna elettorale e uno dei grandi fattori della sconfitta del governo uscente.
La “merdaccia” è quel che resta dell’autorità pubblica a Napoli, per usare l’espressione detta al telefono dalla funzionaria Di Gennaro, una che come i magistrati che la perseguono ha vinto il suo bravo concorso, ha cercato di servire la Repubblica, ha affinato le sue competenze in Italia e nel mondo, e poi è finita nel cuore drammaturgico di questa sceneggiata in cui rifulge “la devastante vigliaccheria dello Stato” (Guido Bertolaso, altra intercettazione).
E adesso che si profilava non dico un lieto fine ma un’uscita di sicurezza, adesso che il popolo ha votato, il governo ha deciso, e la barricata della vergogna sta per essere rimossa con l’accordo di tutti i partiti e l’incoraggiamento del presidente della Repubblica, adesso arrivano i magistrati inquirenti a rilanciare, in nome della legalità, la retorica antistato della cultura di strada, il grido camorristico che s’ode da Napoli a Casal di Principe, la parola d’ordine del populismo primitivo secondo cui “i delinquenti non siamo noi, i delinquenti sono loro”.
Che la magistratura sappia talvolta fare un uso perverso della legalità è in questo Paese da tempo un vecchio sospetto di minoranze liberali. Ora le gesta dei pm napoletani dimostrano che il pensar male è ben radicato nella realtà dei fatti.