di Gaetano Quagliariello
Ho sempre stimato Fausto Bertinotti come un avversario onesto. Uno di quelli che non sta fermo con la testa e non teme di prendersi la responsabilità dei propri ragionamenti. Per questo è per me sempre bene, da avversario, prestare attenzione alle sue analisi.
Anche l’ultima, quella formulata qualche giorno fa in occasione della giornata di studio promossa dalla rivista “Alternative per il socialismo”, ha confermato la regola. In essa Bertinotti prende in esame il discorso pronunziato da Gianfranco Fini al momento della sua investitura a Presidente della Camera. E vi individua la conclusione di una transizione nonché l’inizio di una nuova stagione nella quale il fondamento della Repubblica non è più la discriminante antifascista.
Penso che Bertinotti abbia ragione. Per coloro che, pur riconoscendo quanto di buono i primi cinquant'anni di storia repubblicana hanno portato, non si sono riconosciuti nei miti fondanti della Prima Repubblica, nelle sue formule politiche e nelle sue concezioni istituzionali, si tratta di una grande e forse irripetibile occasione. Per questo sarebbe bene che la sfida venga affrontata a viso aperto, senza aver paura di evidenziare la rottura sul piano politico-culturale.
A tal fine, però, è necessario portare fino in fondo il confronto con Bertinotti. E affrontare anche quella parte del suo ragionamento nella quale egli si dice convinto che la nuova stagione si sarebbe inaugurata nel nome di una Repubblica senza radici e senza storia: di una Repubblica immemore.
Qui Bertinotti si sbaglia. Perché proprio il superamento dei miti fondanti della Repubblica Antifascista con la “A” maiuscola potrebbe invece consentire di recuperare la storia travagliata della democrazia italiana del secondo dopoguerra, senza più omissioni e senza scorciatoie. Di ricordare, ad esempio, come nei primi anni della Repubblica il pericolo di un totalitarismo di sinistra fu ben più forte dei rischi di un possibile rigurgito fascista. Di sottolineare come l’accordo tra cattolici e laici che caratterizzò la stagione del centrismo non fu un mero strumento di difesa di interessi di classe, ma una delle occasioni nelle quali le riforme e il benessere ebbero maggiori opportunità per svilupparsi. Di non dimenticare che a metà degli anni Cinquanta vi fu una generazione di giovani liberaldemocratici, cattolici, socialdemocratici, che senza attendere il discorso di Fini alla Camera già si dichiaravano afascisti, in quanto consideravano il fascismo un fatto storico in gran parte superato e che poco aveva a che fare con i problemi posti dalle conseguenze del boom economico che allora andava a inaugurarsi. E può consentirci persino di affermare senza vergogna che l’accordo costituente fu un grande risultato politico proprio perché si trattò di un compromesso compiuto nel momento in cui nel mondo si era inaugurata la guerra fredda, e quel risultato non presupponeva nessun approdo obbligatorio quanto, piuttosto, da parte dei suoi stessi artefici, la convinzione che quel testo che poi è stato sacralizzato potesse e dovesse essere rivisitato in condizioni politiche meno difficili e alla luce delle novità dei tempi.
La Repubblica, in realtà, divenne Antifascista solo a partire dal 1960, e solo da allora si ritenne che la sua evoluzione dovesse obbligatoriamente svolgersi a sinistra per giungere fino a quel Sol dell’Avvenire che le contingenze internazionali sfavorevoli avevano impedito di scorgere e, secondo la vulgata, avevano costretto a trasfondere nel testo della Costituzione. Da allora la particolare situazione del sistema politico italiano, e la presenza del più forte partito comunista, fece sì che questa situazione alla quale Bertinotti si riferisce fosse nutrita persino dal voto di tanti che con essa erano in disaccordo: di quei tanti "anticomunisti esistenziali", perché anticomunisti per istinto e per concreta esperienza, che rafforzarono la Democrazia Cristiana, tollerando che essa avesse come vocazione obbligatoria quella di una collaborazione con le sinistre.
Insomma, chiudere con la Repubblica Antifascista deve voler dire recuperare la storia del nostro Paese, non certo metterla da parte. E, in quest’ottica, anche quell’antifascismo con la “a” minuscola che fu una pagina importante per l’essenza morale dell’Italia, e che oggi deve essere riletta in tutti i suoi risvolti: in quelli luminosi ma anche in quelli opachi riferibili alle sue tante zone grigie.
Una Repubblica che in luogo del mito acquisisca la storia non è una Repubblica obbligatoriamente più leggera, come teme Bertinotti. E neppure per forza un regime privo di idealità e di generosità. Accettare la sfida significa anche essere consapevoli di doverlo dimostrare, senza complessi di inferiorità e senza più nascondersi. E la dimostrazione potrà avvenire anche attraverso un confronto aperto sulle rispettive letture della storia d’Italia e sulla considerazione dei patrimoni di speranze, di richieste di giustizia, di progresso che ad esse si connettono. Se Bertinotti vorrà, a questo confronto noi siamo pronti.