di Mario Cervi
Ho appreso dall’Ansa che ieri l’associazione Articolo 21 ha ricordato e discusso «la lezione storico-giornalistica di Indro Montanelli a un anno dal centenario della nascita (1909), nella sede della Federazione nazionale della stampa a Roma». Non ho partecipato al convegno per tutta una serie di motivi, il primo dei quali è di per sé solo definitivo: non mi hanno invitato. Sono ormai rassegnato a essere messo un po’ in disparte quando a qualsiasi titolo viene commemorato o celebrato il mio amico Indro. Leggo o ascolto quasi quotidianamente le rimembranze commosse di chi racconta «mi confidò un giorno», «quando l’incontrai mi abbracciò», «seppi da lui, pochi giorni prima che se ne andasse», e via dicendo. Montanelli era, benché solitario di natura, un personaggio con molte frequentazioni, ma non lo ricordo così espansivo e corrivo nel lasciarsi andare al primo venuto.
Niente di male, sia chiaro, in questa profusione di omaggi: nulla di male, preciso, sempre che al riparo dell’omaggio non si voglia far passare un’idea e un’immagine del grande morto adattate ai rancori e ai livori di chi morto non è. La «Articolo 21» prende nome dall’articolo della Costituzione che porta lo stesso numero, e che stabilisce un principio sacrosanto: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo». Perfetto. E Montanelli è stato senza dubbio un esempio luminoso di come si possa e si debba far uso di questa libertà, da onesti, senza finzioni e senza ipocrisie.
Senonché nel corso degli anni la dedizione di «Articolo 21» alla Magna Charta della Repubblica si è colorata d’antiberlusconismo. Il Cavaliere impersona, secondo questa vulgata, la più seria minaccia all’indipendenza dell’informazione: indipendenza sulla quale veglia invece Giuseppe Giulietti, già parlamentare comunista. Nulla e nessuno vieta di pensarla così. Ma l’arruolare Montanelli - per il dissenso con Berlusconi che seguì quasi un ventennio di amicizia e di collaborazione - sotto bandiere ideologiche a lui estranee, per non dire opposte, mi sembra abusivo. Per carità, tutto cambia e tutti cambiamo, ma è meglio che i cambiamenti o gli adattamenti non siano postumi.
È vero che Federico Orlando - cui è stato affidato l’intervento introduttivo - ha conosciuto una parabola politica singolare, passando da posizioni qualificate a sinistra non come liberali ma come reazionarie al ruolo di fiancheggiatore dei Ds. È vero che Marco Travaglio ha - con enorme successo - fatto dell’antiberlusconismo il suo marchio professionale, individuando nell’Unità la guida ideale che un tempo individuò nel Giornale di Montanelli: quando Montanelli fustigava i comunisti. Tutti possiamo redimerci o dannarci. Certo è che i relatori Giuseppe Giulietti e Nicola Tranfaglia, e i loro compagni di fede, e la stampa loro amica, bollarono Montanelli - prima che litigasse con Berlusconi - come fascista o quasi fascista o peggio che fascista. Salvo mondarlo da ogni peccato dopo che ebbe rotto con il suo editore.
Non ho seguito l’incontro di Roma e perciò mi limito, come recita il gergo di palazzo, a un auspicio. Si onori Montanelli. Ma lo si lasci anche in pace. Per le battagliuzze della politica politicante bastano e avanzano i vivi.