di Francesco Cavalla
La magistratura politicizzata è una metastasi della democrazia. Presa così come è, la frase, quale potrebbe essere detta da un Capo di Stato o da un passante, in Italia o nel Burundi, è incontestabile. Vuol dire che il magistrato che subordina il suo operato al perseguimento di fini politici indebiti (il sostegno di un partito politico, di una ideologia, di determinati poteri) mira a scopi che non gli appartengono. Sono scopi che solo il sovrano può determinare, cioè il popolo attraverso il Parlamento. Se altri, chiunque sia si mette in testa di alterare la dialettica parlamentare, di sovrapporre al Parlamento le proprie idee, costituisce un potere illegittimo, antidemocratico.
Non è compito del magistrato giudicare le leggi, fare conferenze, tuonare dalla televisione, mostrare in qualche modo una sua politicizzazione. Questa conclusione dovrebbe sembrare elementare.
Meno evidente, forse, è che rischia di politicizzarsi anche la magistratura che rifiuta ogni controllo sul proprio operato da parte di soggetti estranei a se stessa. Quando un giudice può essere giudicato solo da un altro giudice, è facile che il vincolo di colleganza prevalga sulla serenità del giudizio, è facile che tra giudici si crei una mentalità comune, un comune modo di sentire la giustizia che pesa sull'indipendenza del singolo; e quel che è peggio, è che un ordine professionale non controllato se non da se stesso è tentato di perseguire fini indebiti, riconoscendosi come un potere autonomo da quelli democraticamente eletti.
Si può dire adesso che in Italia la magistratura è politicizzata? Chi scrive non ha la competenza per una affermazione del genere; molti che leggono possono giudicare secondo la loro esperienza. Ma è certo che il sistema vigente dei controlli dell'attività giudiziaria presenta sicuri rischi.
Leggiamo da una notizia di agenzia che Zapatero avrebbe intenzione di sottoporre il corrispondente spagnolo del nostro Csm al controllo del Parlamento. Troppo poche e troppo generiche le parole per un commento articolato. Però notiamo che il problema del controllo è avvertito, anche fuori dei confini italiani: è un problema reale e diffuso.
Ma chi dovrebbe controllare cosa? Il giudizio in udienza può essere controllato solo dalle parti che propongono appello se insoddisfatte. Ma c'è poi l'operosità del magistrato, la sua diligenza, la capacità di scrivere le sentenze in tempo ecc. È materia il cui controllo non incide sulla libertà di coscienza del magistrato ma sulla sua operosità. Esistono già al riguardo degli organi preposti all'esame dell'attività degli uffici di giustizia, e sono i consigli giudiziari. Ma bisogna cambiarne composizione e competenze. Bisogna che entrino a farne parte anche cittadini eletti in occasione delle consultazioni amministrative: e devono poter redigere una relazione dettagliata sull'andamento della giustizia.
La carriera dei magistrati deve ritornare a svilupparsi attraverso esami per titoli, tra i quali dovrebbero stare le relazioni dei consigli giudiziari; commissari di esame non potrebbero esser che i magistrati della Cassazione.
E quale controllo per i giudizi della Cassazione? Qui e solo qui sarebbe ammissibile un intervento diretto del Parlamento: quando nelle sentenze del Supremo Collegio le Camere ravvisassero un'interpretazione che stravolge il senso della loro volontà legislativa sarebbe loro compito, precisare, ribadire, determinare il contenuto delle loro delibere. Sempre aperta poi è la gravissima questione dei procedimenti penali contro il Capo del Governo, o un ministro e via dicendo. Qui l'attività giudiziaria agendo riduce la libertà di organi cui il popolo ha delegato poteri che non soffrono limiti esterni; e d'altra parte non è neppur pensabile che organi politici possano sindacare nel merito l'attività inquirente e giudicante della magistratura. Bisogna sapersi accontentare, per non recare un danno irreparabile alla vita democratica non c'è che sospendere, rinviare i procedimenti ad un tempo successivo all'espletamento del mandato politico.
Al lettore di queste brevi note sono dovute delle scuse. I problemi della giustizia sono molti e gravi e attorno agli stessi si levano grandi aspettative. Ma proprio per questo è tanto difficile formulare una proposta completa, tale da soddisfare le attese di molti. Però ancora per questo sarà capito chi comincia ad avanzare qualche idea per una discussione ormai urgentissima.
Francesco Cavalla
*professore di filosofia del diritto all’università di Padova