Molti pensano che, con la ripresa dell’attività politica, i veri problemi per Silvio Berlusconi non verranno dall’opposizione, che in preda a una crisi di identità è in letargo, ma dalla Lega. Con una sinistra lacerata e una maggioranza semplificata dalla nascita del Popolo della libertà, il Cavaliere dovrà vedersela solo con le folate di vento del Nord. Secondo i più pessimisti c’è addirittura il rischio che si ripeta ciò che accadde nella passata legislatura, quando Berlusconi fu messo all’angolo dall’Udc di Marco Follini, con gli effetti devastanti sul governo che tutti ricorderanno.
In effetti le ultime uscite di Umberto Bossi lasciano intravedere una certa impazienza tra le file del Carroccio e, come sempre succede in questi momenti, il Senatur torna a usare le parole e i gesti forti. È accaduto con l’inno di Mameli, cui il capo della Lega ha fatto un particolarissimo alzabandiera; è accaduto con l’ipotesi di reintroduzione dell’Ici. Ma se è vero che nel partito che meglio incarna lo spirito del Settentrione serpeggia qualche nervosismo, sono convinto che dietro l’angolo non ci sia alcuna intenzione di rompere l’alleanza. Innanzitutto perché Bossi non è Follini, ma in particolare perché il suo progetto politico non si basa sulla liquidazione di Berlusconi, come contemplava invece quello dell’ex segretario Udc e del suo ex padrino politico Pier Ferdinando Casini. Il leader della Lega non sogna per sé una futura leadership nel centrodestra, né una nuova coalizione. E poi uno sgambetto al Cav. il Senatur l’ha già fatto nel ’94 e si sa com’è andata a finire.
In realtà la sola ambizione di Bossi è il federalismo, o, meglio, il federalismo fiscale. Forte dell’esperienza accumulata come ministro delle Riforme, Bossi ha capito che non basta la devolution, ossia il trasferimento di poteri dallo Stato alle Regioni, e neppure l’autonomia in settori importanti come sanità e istruzione. Per dar vita davvero a un’Italia federale serve soprattutto la possibilità di controllare le entrate. Sì, insomma, senza la cassa non si fa nulla. Non solo non si possono finanziare le decisioni prese, ma non si tagliano neppure gli sprechi. Senza il fisco, il federalismo è monco. Anzi, non è neppure un federalismo, ma soltanto un’illusione di federalismo.
Così Bossi spinge, reclama una decisione che vada nella direzione da lui auspicata, nei modi che gli sono abituali. Che l’impresa gli riesca non è detto. L’autonomia fiscale non è un giochino che si fa in quattro e quattr’otto, spostando un po’ di quattrini da un tavolo all’altro. Perché funzioni è indispensabile che si ridisegni l’architettura dello Stato, ma anche la spesa delle Regioni e soprattutto i servizi, altrimenti alcune amministrazioni farebbero bancarotta in meno di dodici mesi. Certo, non si potrebbe più continuare come si è fatto finora, ovvero trasferire potere alle Regioni senza trasferire i dipendenti, col risultato che gli organici della sanità, ma anche quelli di altri settori, sono continuati a crescere senza freni e soprattutto è cresciuta la spesa pubblica, nazionale e regionale.
Per consentire che i soldi delle tasse rimangano là dove vengono incassati, c’è bisogno di una revisione dello Stato e della sua organizzazione. Perché il federalismo fiscale si accompagna inevitabilmente a una ristrutturazione della spesa. Un’operazione difficile e non priva di rischi. Ma se Bossi riuscisse a realizzarla, io sarei pronto a perdonargli il dito alzato contro l’inno di Mameli e anche molto altro.