A quasi un mese dalla morte del Premio Nobel Alexsandr Solgenicyn rendiamo omaggio alla memoria di questo grande della letteratura anticomunista con un articolo del prof. Vittorio Strada.
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Nella storia della letteratura e del pensiero politico russi, Aleksandr Solzˇenicyn appare come una figura gigantesca, senza uguali. Per trovare una personalità comparabile, si potrebbe tutt’al più pensare a Lev Tolstoj, il quale si trovò però a fare i conti con una situazione ben diversa, lo zarismo, che non raggiunse mai le vette repressive del potere comunista.
È interessante notare come la fisionomia intellettuale di Solzˇenicyn abbia cominciato a formarsi proprio nella fase culminante del regime sovietico, quella della «grande guerra patriottica» contro la Germania hitleriana. Egli era allora un giovane tenente di artiglieria, laureato in fisica e matematica, pluridecorato. Era insomma un cittadino sovietico modello, addirittura leninista: e pensando che si dovesse tornare al «leninismo vero», in adolescenza aveva progettato di scrivere una storia della rivoluzione.
Proprio allora però, per uno scherzo del destino, ebbe inizio la seconda fase della sua vita: avendo criticato Stalin in una lettera privata intercettata dalla censura militare, fu recluso in campo di concentramento, da cui uscì solo nel 1953 per andare a curarsi un cancro in un ospedale di Tashkent.
Quest’uomo, che neanche trentenne aveva dovuto già superare due grandi sciagure, diventò un personaggio pubblico nel 1962, quando la rivista Novyj Mir pubblicò il suo romanzo breve Una giornata di Ivan Denisovicˇ, che suscitò in Russia un clamore immenso, poiché raccontava la vita di un detenuto nel gulag, tema fino allora tabù. Il testo venne pubblicato grazie a un intervento diretto di Nikita Krusciov, tiranno assai complesso, capace di scatti oscurantisti ma anche di gesti di grande umanità, impegnato in quel momento a rinnovare la campagna antistalinista contro alcuni suoi compagni di partito.
Qui interviene il primo grande equivoco nell’opinione russa e occidentale. Tutti acclamano quel romanzo: finalmente, dicono, in Urss si parla del gulag con l’autorizzazione del potere. Pochi si accorgono però che quel libro non è solo una critica dell’universo concentrazionario, ma è l’opera di uno scrittore autentico, vigoroso, risultato di una profonda ricerca intellettuale. Pochi si accorgono, insomma, che è nato non solo un grande romanziere, ma anche un pericoloso pensatore.
L’equivoco sarà destinato a dissiparsi nel corso degli anni Sessanta, quando ci si accorgerà che Solzˇenicyn non è un alleato per riformare il comunismo, ma un avversario implacabile di quel regime, dotato per giunta di una volontà di ferro e di un senso altissimo della propria missione. In un crescendo drammatico, Solzˇenicyn fa circolare clandestinamente in Urss tutta una serie di manoscritti. Alcuni di questi testi poi escono dal paese e vengono pubblicati in Occidente.
Il culmine dello scandalo verrà raggiunto quando, nel 1973, sarà pubblicato all’estero Arcipelago Gulag, potente testimonianza storica e letteraria che apre gli occhi al mondo sulla verità della rivoluzione comunista. Per tutta risposta, il potere sovietico prima lo farà espellere dall’Unione degli scrittori e poi, nel 1974, lo manderà in esilio. E solo recentemente abbiamo conosciuto il restroscena grottesco di questa misura estrema: l’espulsione fu imposta dal prudente Jurij Andropov, mentre altri capi della nomenklatura, come Aleksej Kossighin, avrebbero voluto addirittura arrestare lo scrittore.
Con Solzˇenicyn ormai lontano dalla Russia e isolato tra le nevi del Vermont, inizia una nuova fase, durata vent’anni, in cui il grande esule si concentra tutto sulla sua attività di scrittore, dedicandosi a un progetto colossale, La ruota rossa, immenso romanzo in vari volumi che vorrebbe ripercorrere la storia russa dal 1914 all’ottobre del 1917. A poco a poco, grazie a una documentazione minuziosissima, prende forma un genere letterario nuovo, a metà strada tra la narrazione romanzesca e la riflessione storica.
Ed è in questo ventennio che Solzˇenicyn si trova anche al centro di vivaci polemiche che coinvolgono tutto il mondo del «dissenso» russo. A dire il vero, io non considererei Solzˇenicyn un «dissidente»: talmente gigantesca è la sua statura, talmente irriducibile la sua opposizione al mondo sovietico, che gli si farebbe torto costringendolo in una definizione così angusta. Quanti «dissidenti» del resto sarebbero stati recuperati se il potere comunista si fosse comportato in modo meno ottuso.
Alcune sue dichiarazioni violentemente negative sulla democrazia occidentale misero in imbarazzo parte dei suoi sostenitori e servirono ai suoi avversari per contrapporlo a uomini come Andrej Sacharov o Andrej Siniavskij, che vagheggiavano invece per la Russia una democrazia di tipo occidentale. La sinistra europea e i liberal russi gli affibbiarono il titolo di «ayatollah», lo considerarono una specie di profeta passatista che voleva imporre idee fuori dal tempo.
A mio avviso, si tratta di una rappresentazione superficiale. Solzˇenicyn aveva, a differenza dei suoi avversari, una visione drammatica, tragica, abissale della storia russa, e pensava che un’applicazione dei principi liberali al proprio paese fosse una pia illusione, una nuova utopia. Credo che i fatti gli abbiano dato ragione. Certo, Solzˇenicyn era un conservatore, ma non nel senso gretto dell’espressione, era bensì un conservatore imbevuto di realismo.
Tra le accuse rituali e balorde ci fu anche quella di essere antisemita, quando pubblicò Duecento anni insieme (2003). L’accusa infamante era del tutto infondata: è vero che Solzˇenicyn criticava il ruolo che una parte dell’intellighenzia ebraica radicale aveva avuto nella preparazione della rivoluzione bolscevica, il che è un dato di fatto, ma alla fine concludeva che i più colpevoli fossero proprio i suoi concittadini russi.
Anche le sue proposte di riforma, a dire il vero presentate in modo un po’ velleitario una volta tornato in Russia nel 1994, hanno suscitato molte riserve. Bisogna però ricordare che Solzˇenicyn ha sempre avuto due punti fermi nei riguardi della storia russa prerivoluzionaria. Uno era l’idea che la base della vera democrazia è l’autogoverno locale, alla maniera dello «zemstvo» ottocentesco, laddove invece i partiti sono destinati a diventare dei clan, delle caste. L’altro è la riforma agraria tentata dal ministro dello zar Pëtr Stolypin, che avrebbe dovuto creare una classe di contadini proprietari della terra. Questi due punti fermi avrebbero dovuto, secondo Solzˇenicyn, costituire la base della futura democrazia russa. Aggiungerei anche la religione che, non a caso, fu una delle prime cose sradicate dai bolscevichi, insieme all’autogoverno e all’agricoltura privata. Ed è proprio su questa tabula rasa che si è costruito il totalitarismo comunista.
Comunque, se si vuole capire la Russia di oggi, di ieri e forse di domani, non si può fare a meno di Solzˇenicyn. È un punto di riferimento chiave e una figura storica eccezionale. Vittorio Strada
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* Vittorio Strada è il massimo studioso italiano di storia e letteratura slava. Ha appena pubblicato Etica del Terrore. Da Fëdor Dostoevskij a Thomas Mann, Edizioni Liberal.