Solo un anno fa, la vulgata giornalistica voleva convincerci che il Pd di Veltroni fosse l’unica novità della politica italiana, una novità alla quale il centrodestra si sarebbe dovuto ispirare. Di conseguenza la nascita di una lista elettorale unica, il Pdl, fu banalizzata come una scimmiottatura del colpo di genio di Veltroni che, secondo l’analisi dei giornalisti in premessa, aveva già la vittoria in tasca.
Oggi è evidente a tutti che, al contrario, solo il Pdl rappresenta una realtà politica che va consolidandosi e i suoi gruppi parlamentari funzionano in modo assolutamente soddisfacente. Nelle prime settimane dopo il successo elettorale del centrodestra, i sondaggi hanno registrato uno spostamento progressivo e importante di coloro che avevano votato Veltroni verso il nuovo centrodestra. Non si tratta, come nel centrosinistra dicono a se stessi, di un gradimento che può richiamare quello registrato nei primi mesi dal governo Prodi prima della caduta verticale seguita alla prima Finanziaria di Tommaso Padoa Schioppa. L’oggetto dei sondaggi attuali, infatti, non è volto a registrare il gradimento per l’operato dell’esecutivo tra coloro che l’hanno votato, ma quanti di coloro che hanno votato per il Pd oggi voterebbero per il Pdl: e sono molti.
Che il Pd di Veltroni non abbia trovato una funzione da assolvere nemmeno in ambito parlamentare è già provato. La leadership di Veltroni non si sente, le sue esternazioni sono fiacche, estemporanee e si percepisce ormai che la rilevanza della sua immagine pre-elettorale era dovuta all’amplificazione mediatica e non alle sue doti intrinseche.
L’unica opposizione che si fa sentire è quella di Di Pietro e del suo manipolo di rappresentanti. Un’opposizione gridata, a volte circense, costruita sul turpiloquio e la provocazione, anche in sede parlamentare. Di Pietro ha scelto, come stile, l’invettiva e il chiasso, nella totale assenza di un progetto politico. L’identità stessa della sua formazione ha ben poco di politico d'altronde, e anzi ha pasturato elettoralmente nel clima svilente e imbarazzante creato dalla campagna di “antipolitica” recitata da attori come Grillo e sceneggiatori come Travaglio.
Di Pietro, in fin dei conti, non ha nulla da dire: deve solo accusare Berlusconi di avere conflitti di interessi e di voler imbavagliare i giudici. Così facendo si offre come terminale della corporazione oggettivamente più potente d’Italia, qualora questa, in parte o complessivamente, ritenga di approfittare dei suoi servigi.
Non è del tutto sbagliata la tattica di Di Pietro, dal momento che appare evidente a tutti come, in assenza di una opposizione politica, che fatica ad assumere dignità in Parlamento e perde irrimediabilmente consenso nel Paese reale, gli unici gruppi ad opporsi manifestatamente all’operato dell’attuale premier siano quelli che vedono minacciate le proprie rendite di potere, accresciute durante i decenni di indebolimento dello Stato e delle istituzioni.
Dagli anni Sessanta in poi, infatti, lo Stato ed i governi hanno subito una progressiva ed inesorabile delegittimazione che ha permesso a poteri altri da quello politico di guadagnare posizioni e profittare dell’indebolimento del potere centrale, trasformando l’Italia, sempre di più, nel Paese dei poteri deboli, riedizione dell’Italia delle signorie, oggetto di appropriazione per le Nazioni forti che sanno approfittare della globalizzazione per soddisfare le loro mire espansionistiche.
Sicuramente l’inchiesta denominata Mani Pulite è stata il banco di prova della possibilità che l’interazione di alcune signorie corporative – sostenute da poteri forti esterni al paese – potessero azzerare le classi politiche e ribaltare i risultati elettorali in qualsiasi democrazia avanzata, realizzando quei grandi dirottamenti che nei Paesi meno evoluti venivano messi in atto tramite colpi di Stato eterodiretti.
Tangentopoli ha dimostrato che l’interazione di giudici motivati e centrali dell’informazione può interrompere qualunque processo di trasformazione politica. Il caso italiano divenne, negli anni Novanta, un modello operativo che venne poi impiegato in altri scenari sensibili dove interessi internazionali erano in gioco. Fu il caso del cosiddetto Hebrongate, che colpì il governo conservatore di Nataniahu nel 1997.
Nel 1999 fu la volta del cancelliere della repubblica federale tedesca Helmut Kohl, accusato di aver utilizzato un sistema di conti segreti per finanziare la sua campagna elettorale. In Spagna toccò al socialista Felipe Gonzales, responsabile della grande rinascita del partito socialista spagnolo. Coinvolto in una grande campagna di accuse di corruzione e cattiva gestione economica, perse le elezioni a favore di José Maria Aznar nel 1996 e l’anno successivo abbandonò senza preavviso la guida del partito.
Questi episodi portarono alla pubblicazione in Francia, dove manovre analoghe avevano colpito politici di entrambi gli schieramenti, del libro dell’editorialista del Figaro Eric Zemmour intitolato non a caso “Il colpo di stato dei giudici”. In questo libro-inchiesta, l’autore metteva in guardia i politici di ogni partito e gli elettori dal pericolo per la sovranità popolare rappresentato dall’indebita alleanza tra magistrati in cerca di fama e cronisti senza scrupoli.
In tutte le democrazie colpite da simili sensazionali episodi, gli stessi organi di autocontrollo delle categorie, d’accordo con la politica, sono in qualche modo corsi ai ripari per ristabilire delle regole che tutelassero il diritto alla cronaca e il dovere della magistratura di vigilare su qualsiasi irregolarità nella gestione della cosa pubblica, ma proteggessero al contempo la cittadinanza dal pericolo che tali poteri vengano utilizzati per interferire nella gestione politica del Paese. In Italia, al contrario, personaggi oscuramente generati dalla stagione giacobina di Mani pulite, tentano ancora di tenere in ostaggio il Paese.
Solo in un tessuto politico logorato, come purtroppo è il nostro, può avere diritto di cittadinanza uno schema ipocrita e banale come quello che vorrebbe vedere contrapposti il rigido giudice e l’indomito cronista a caccia di potenti alla Casta dei ladri. Eppure non può non essere fonte di preoccupazione il fatto che in termini mediatici la sola contrapposizione che abbia una qualche visibilità sia quella che vedrebbe un isolato Berlusconi in guerra contro tutti i giudici e tutti i giornalisti.
Facile gioco hanno così i titolisti che, battezzando iniziative legislative con nomignoli quali “salva rete” e “salvapremier” e travisandone i contenuti, fanno in un secondo carne di porco di tutta la dignità di governo, parlamento ed elettori.
Era stato previsto da molti che il disfacimento della sinistra sarebbe potuto risultare in un danno per il dibattito politico. Oggi non ci resta che sperare che un politico vero riprenda la guida del centrosinistra mandando definitivamente in pensione la leggerezza veltroniana e la trivialità demagogica di Di Pietro. Un buon governo ha anche la responsabilità di scegliersi una opposizione alla propria altezza e oggi, francamente, il popolo del centrodestra si merita qualcosa di meglio, anche dai propri avversari. (Marcello De Angelis)