Con John McCain non si sa mai come va a finire. Amici e avversari lo sostengono da anni. Ora anche Barack Obama starà pensando la stessa cosa. Sulla copertina di “Time” del 19 maggio scorso si poteva leggere in testa: “And the winner is…”. L’annuncio stile Oscar era accompagnato da un asterisco che rimandava a bordo pagina. Qui una confidenza: “Questa volta, ad esser sinceri, siamo piuttosto sicuri”. Inutile dire che la faccia che dominava la copertina era quella del giovane senatore afro-americano. Significativamente, la settimana scorsa, “Time” di faccia, sulla prima pagina, c’ha messo quella del senatore repubblicano. Il titolo? “McCain’s moment”. Insomma, anche per il settimanale più importante d’America non è più così sicuro che Obama si aggiudichi le elezioni del 4 novembre.
Le due Convention, quella pirotecnica di Denver e quella old style di St.Paul, hanno aiutato a chiarire le idee. Anzi a confonderle. Sì, perché se si votasse oggi il risultato assomiglierebbe tanto al “too close to call”, a quel famigerato “troppo vicini per dire chi ha vinto” che agli americani ricorda immediatamente le drammatiche presidenziali del 2000 con Gore e Bush distanti una manciata di voti nello Stato chiave della Florida. McCain sembra aver stabilmente recuperato lo svantaggio dei mesi scorsi ed, anzi, alcuni sondaggi come Gallup lo danno ora addirittura avanti a livello nazionale. Secondo RealClear Politics, Obama è però ancora in testa se si guarda al dato Stato per Stato (che poi è quello che conta, perché così viene eletto il presidente americano). Comunque sia, a meno di 60 giorni dal voto, risulta chiaro che la partita è quanto mai aperta. Tanto che Andrew Romano di Newsweek, dopo un’articolata analisi della situazione, conclude: “Non ho la più pallida idea di chi vincerà il 4 novembre”.
Obama perde dunque quota. Nel suo entourage si nota un certo nervosismo alimentato da alcune gaffe pericolose del senatore dell’Illinois. Obama ha definito il programma di McCain “un maiale con il rossetto, ma pur sempre un maiale”. Per quanto il candidato democratico si sia sforzato di dimostrare il contrario, molti hanno colto un riferimento poco elegante a Sarah Palin. La vice di McCain, come è noto, si è autodefinita ironicamente “un pitbull col rossetto”. I repubblicani hanno subito messo in circolazione uno spot in Internet che, accostando le frasi di Obama e Palin, accusa il senatore dell’Illinois di essere sessista. “Pronto a guidare? No. Pronto a insultare? Si”, afferma lo spot. L’ultima pericolosa uscita di Obama segue di pochi giorni il lapsus su “la mia fede musulmana”, sfuggito ad Obama nell’intervista di George Stephanopoulos della “ABC”. Più goffa, perché meditata, è stata un’altra dichiarazione sempre alla “ABC”. Obama ha affermato che, dopo il diploma, nel 1979 ha pensato di arruolarsi nell’esercito. Ma, ha aggiunto, “essendo ormai la guerra del Vietnam conclusa e non essendoci altri conflitti in cui l’America fosse impegnata, ho pensato che non fosse il caso”. In molti si sono chiesti il perché di questa dimostrazione (solo verbale e dunque facilmente criticabile) di patriottismo militare che mai potrà competere con il background (reale e dunque difficilmente criticabile) del prigioniero di guerra John McCain. Altro segnale poco incoraggiante per Obama lo ha rilevato l’“International Herald Tribune”: la campagna del candidato democratico non raccoglie più fondi elettorali a go go come un tempo.
C’è poi il caso “Ophrah-Sarah”. La signora della televisione americana Ophrah Winfrey, grande sponsor di Barack Obama, ha annunciato di non aver intenzione di invitare nel suo show la governatrice dell’Alaska, Sarah Palin, la donna del momento. “La inviterò – ha detto – quando la campagna elettorale sarà finita”. Il gran rifiuto ha sollevato un vespaio di polemiche: il sito web della Winfrey è stato investito da un fiume di email di suoi fan arrabbiati per la scelta partigiana. La mossa di Ophrah arriva dopo che il numero 2 di Obama, Joe Biden, aveva cercato di sminuire la figura della vice di McCain definendola “carina”. Un apprezzamento che alle donne democratiche ha riportato alla mente quel “è gradevole” di Obama nei confronti di Hillary Clinton durante le primarie. Siamo così arrivati al fattore che, secondo molti osservatori, ha dato la svolta a queste presidenziali: Sarah Palin, “the game changer”, nelle parole di Ed Rollins, uno dei consiglieri politici di Ronald Reagan.
La scelta di McCain sembra aver colto nel segno. La Palin ha tolto ai democratici il vessillo del cambiamento. Rispetto a Sarah “Barracuda”, perfino il senatore al primo mandato Obama sembra un personaggio dell’establishment washingtoniano. Per non parlare del quasi settantenne Joe Biden. Inoltre, come auspicavano i repubblicani, dopo la nomination della Palin si è registrato un considerevole incremento di consensi tra l’elettorato femminile per il ticket repubblicano (e chissà cosa succederà ora dopo il caso del “maiale col rossetto) . Al senatore dell’Arizona sembra stia riuscendo anche un’altra impresa, forse perfino più ardua. La strana coppia McCain-Palin sta facendo dimenticare il duo Bush-Cheney. Cosa c’è - sembrano dire i fan del ticket 2008 - di più diverso dal “figlio di papà” George W. e dal “Darth Vader” Cheney del veterano John e della “hochey mom” Sarah? I democratici continuano a proporre il jingle “McSame”, “McCain è uguale a Bush”. Forse è tempo che cambino strategia.