di Giordano Bruno Guerri
Avevo neppure otto anni, ora lo so. Mio padre, credendo che non ascoltassi (ma io ero a orecchie tese) discuteva con i suoi amici. «Quando verrà il momento ce lo porto io, ce lo porto», diceva accennando a me. Ero curiosissimo di sapere dove mi avrebbe portato, perché di certo si trattava di una faccenda grave, tanto era animata la discussione. Ho capito molti anni dopo dove mio padre prometteva di portarmi, un giorno, in quel settembre del 1958. Il 20 febbraio era stata approvata la legge (entrata in vigore alla mezzanotte del 20 settembre) che aboliva le case chiuse e il babbo, evidentemente, era fra quelli che pensava fosse un errore. Avrebbe dunque provveduto a farmi avere quell'iniziazione sessuale a pagamento che avevano avuto lui, e prima di lui suo padre e suo nonno. Babbo Ebo non mantenne mai la promessa avanzata polemicamente agli amici. E durante i tormentati anni dell'adolescenza – pre-Sessantotto e pre-rivoluzione sessuale - glielo rimproveravo, senza avere il coraggio di parlargliene. La carne urgeva, le ragazze erano inavvicinabili e lui non era stato di parola. Ora so che fece bene ma, mezzo secolo dopo, mi devo pormi le stesse domande che si facevano mio padre e i suoi amici.
La legge, dovuta alla tenacia della senatrice socialista Angelina (detta Lina) Merlin, in realtà fu una conseguenza dell'adesione all'Onu dell'Italia, che sottoscrisse la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, dove tra l'altro si impone «la soppressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione». Era un principio giusto, però erano legittime le obiezioni di chi sosteneva che «il meretricio» sarebbe andato fuori controllo. Del resto la legge sulla prostituzione aveva un padre nobilissimo, Camillo Benso conte di Cavour, che regolamentò le case chiuse nel Regno di Sardegna: la sua legge fu adottata anche nel Regno d'Italia fin dalla nascita, nel 1860.
Negli anni Cinquanta, fra gli oppositori della legge c'erano anche molti cattolici, timorosi che la chiusura di quella «valvola di sfogo» avrebbe portato alla rovina parecchie famiglie. Indro Montanelli, poi, scrisse un pamphlet – Addio Wanda! (Longanesi 1956, Rizzoli 1975) – in cui sosteneva: «In Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia...».
Lina Merlin aveva presentato un primo disegno di legge nell'agosto del 1948, quando in Italia c'erano più di settecento bordelli, più comunemente detti «casini», che ospitavano a rotazione («le quindicine») tremila prostitute registrate. Quando la legge passò, con l'opposizione di missini e monarchici, le lavoratrici del settore erano ridotte a duemilacinquecento, perché da anni non venivano concesse nuove licenze. Erano di più quelle in proprio, abusive, ma pochissime quelle in strada. E qui il primo confronto con l'oggi è impressionante: le prostitute si contano a decine di migliaia, addirittura centinaia di migliaia, con quelle saltuarie. I bordelli, ufficialmente aboliti, sono rinati sotto forma di club, centri estetici e altre iniziative più casarecce o più sofisticate, come in internet. Il mercimonio all'aperto pullula nelle città piccole e grandi, sulle strade statali, provinciali e comunali. Lo sfruttamento non avviene più da parte dello Stato, che ci ha rimesso in tasse ricevute, ma da parte di biechi (e spesso violenti) individui. Certo, creava imbarazzo, prima del 1958, che lo Stato ricevesse una percentuale su ogni «marchetta», il gettone che il cliente acquistava alla cassa e che gli dava diritto alla prestazione. Ma, se prostituirsi è lecito e rende denaro, è assurdo che i guadagni di chi opera in questo settore non vengano tassati, come qualsiasi altra prestazione, diciamo così, artigianale. Le donne - ché si tratta perlopiù di donne, benché la prostituzione maschile cresca di giorno in giorno – sono vittime quotidiane della violenza di lenoni e clienti: alimentano un giro d'affari enorme. E ormai è lecito parlare di un vero mercato delle schiave, popolato soprattutto da ragazze dell'Est o del Terzo Mondo. A differenza di quanto avveniva nei casini, non esiste alcun controllo sanitario, allora obbligatorio, e quelle romanticamente chiamate lucciole sono le principali responsabili della diffusione di malattie veneree, nonché dell'aids, spesso portato nel letto coniugale da mariti sciagurati.
Per combattere lo spettacolo delle file di auto lungo i marciapiedi, dove sfarfallano ragazze e trans seminudi, in alcuni Comuni non si era trovato niente di meglio che perseguitare i clienti con multe per intralcio al traffico: multe inviate a casa, con indicazione del luogo e dell'ora dell'infrazione. Non riuscendo a colpire gli sfruttatori, si colpivano i clienti, in modo biecamente obliquo. Ora arriva la «legge Carfagna», che prevede multe e carcere per clienti e prostitute di strada. Ma anch’essa rischia di strizzare il foruncolo senza estirpare – o sanare – il bubbone che c’è sotto. Quel che manca ancora è una nuova legge organica che affronti globalmente il problema.
Intendiamoci, non c'è da avere nostalgia dei casini, benché ricordati con vene di nostalgia in numerosi film e in alcuni bei libri. Se non è accettabile che lo Stato organizzi la prostituzione, bisognerà pur trovare il modo di contenerne i guasti. Da anni si fanno ipotesi, dalla ghettizzazione in quartieri a luci rosse, come in molti Paesi d'Europa e del mondo, o in casa, in piccole cooperative di poche professioniste. Senza che si riesca a trovare un accordo.
La Merlin, nella sua legge, si appellava fra l'altro all'articolo 32 della Costituzione, che considera la salute come fondamentale diritto dell'individuo; ma la salute viene messa in maggior pericolo oggi. Veniva citato anche il secondo comma dell'articolo 41, per il quale un'attività economica non può arrecare danno alla dignità umana; ma, quando si tratti di libera scelta, la prostituzione non lede la dignità di chi ne ha fatto un lavoro: né si dica che spesso è la mancanza di alternative a spingere verso quella strada, la cronica mancanza di badanti italiane è una prova abbastanza evidente del contrario. Riconosciamolo, finalmente, e diamo norme a un mestiere che non può essere lasciato alla barbarie: anche se, e proprio perché, è «il più antico del mondo».