Non so che cosa bolle nella pentola del ministro per la Semplificazione. C’è chi dice che nella bozza di federalismo fiscale preparata da Roberto Calderoli si sia insinuata la possibilità per i comuni di reintrodurre l’Ici, l’odiata imposta sulla casa. Silvio Berlusconi nega, ma nei 22 articoli messi a punto dall’esponente leghista effettivamente fa capolino una “razionalizzazione dell’imposizione fiscale immobiliare” che fa pensare a una tassa unica sulle abitazioni. Ciò basta a turbare gli animi dei contribuenti, i quali temono d’essere gabbati.
Non sarebbe la prima volta: di governi che in campagna elettorale promettono una cosa e subito eletti ne fanno un’altra è piena la storia della Repubblica. E che il Cavaliere e compagni (pardon: alleati) avessero promesso di ridurre le tasse è cosa nota; infatti, tanto per gradire, appena in carica hanno seppellito l’Ici sulla prima casa. Se l’imposta comunale risorgesse dopo appena 4 mesi, seppur con un altro nome, certo sarebbe una beffa da Amici miei.
Ma ancor peggio sarebbe se la tanto attesa riforma fiscale in senso federale fosse una presa in giro. Mi spiego. Il problema non è come si chiama una tassa, ma se alla fine il cittadino paga di più o di meno. Per quel che mi riguarda un’imposta può anche essere battezzata Giovanni, ma il mio rapporto con lo Stato e chi lo impersona cambia se Giovanni alla fine si mangia una fetta più o meno grande del mio reddito. Calderoli, se vuole, può anche rimettere un’imposta sugli immobili, ma a patto che ne levi o ne riduca un’altra.
E qui sta il punto. Introdurre il federalismo fiscale significa metter mano a tutta la fiscalità dello Stato, non a un pezzo. A differenza di quel che si crede, la riforma cui tiene tanto Umberto Bossi non si risolve nel fatto che le tasse restano nel territorio che le ha prodotte, ma nell’autonomia impositiva, vale a dire nella possibilità di creare e soprattutto abolire le tasse, di alzarle o ridurle in base ai servizi che il cittadino riceve. Se c’è l’autonomia impositiva, una regione efficiente può diminuire il prelievo nelle tasche dei contribuenti, un’altra poco accorta potrebbe invece dover rinunciare a dei servizi oppure aumentare le tasse.
A tutt’oggi il fisco è saldamente nelle mani dello Stato centrale, che stabilisce le imposte (Iva, Ire, Ires) e le aliquote in base ai servizi erogati e ai bisogni delle regioni. Paradossalmente, con l’abolizione dell’Ici il governo di cui fa parte la Lega ha accentrato ancor di più il potere centralista delle entrate, cancellando quasi tutto il prelievo assegnato ai comuni, per cui gli enti locali dipendono dalle tasse decise a livello nazionale e dai conseguenti trasferimenti che lo Stato decide. Oggi, al massimo, alle regioni si propone una compartecipazione nella riscossione: più tasse incassano, più quattrini potrebbero vedersi riconosciuti. Diverso sarebbe se si consentisse a ogni regione di decidere le imposte da far pagare e il tipo di servizi da erogare.
Sento già l’obiezione: con una simile autonomia, in capo a un paio d’anni l’intera Italia sarebbe in bancarotta, perché ogni amministratore farebbe a gara a ridurre le tasse o a spendere di più per aumentare il proprio consenso. Il rischio c’è. Ma gli italiani toccherebbero con mano il contratto che lega ogni cittadino alla propria comunità. Pago le tasse in cambio di qualcosa e se quel qualcosa non è all’altezza, o se le tasse sono troppe, la colpa non è dello Stato lontano e insensibile, ma di una amministrazione inefficiente e di una classe politica incapace che io posso sanzionare con il voto. Sono ovviamente molto scettico sul fatto che tutto ciò sia realizzabile. Ma, come ho già spiegato, il federalismo fiscale non significa che al Nord resteranno le tasse che esso produce e che il Sud avrà meno finanziamenti, ma che finalmente ogni ente spenderà in base alle entrate e agli attivi di bilancio realmente disponibili. Se qualche regione incontrerà difficoltà, andrà aiutata, però sapendo che alla fine i conti dovranno tornare.
Non so se per far questo serviranno 10 o 20 anni. Ma, se ci arrivassimo, per me le imposte potrebbero anche chiamarsi Pippo: basta che alla fine pesino di meno. E si realizzi così il punto numero uno del programma di governo di Berlusconi. Che non è il federalismo, bensì uno Stato a stecchetto che fa pagare meno imposte a tutti.