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 L'IMPOSSIBILE TEOREMA DI SOFRI, editoriale di Maurizio Belpietro Data: 20/09/2008
Appertiene alla sezione: [ Il commento del giorno ]
Di Adriano Sofri non mi stupisce la pervicacia nel dichiararsi innocente. Anche se una sentenza definitiva della Cassazione l’ha condannato a 22 anni di carcere, riconoscendo che fu il mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, l’ex leader di Lotta continua ha tutto il diritto di dire che non ha “mai ordito, né ordinato quel delitto”. La legge non impone a un condannato di tacere, né gli impedisce di dirsi vittima di un’ingiustizia; neppure gli vieta di tentare di riaprire il processo, di chiedere una revisione della sentenza, che nel caso in questione già vi fu, ma con la conferma di tutte le condanne. Dunque non sarò certo io a dire che invece di scrivere della sua dolorosa vicenda umana e politica, Sofri dovrebbe farsi dimenticare, lasciar cadere su di sé il silenzio, sparire. Anzi: gli auguro un giorno di poter dimostrare di non avere nulla a che fare con l’assassinio di un inerme poliziotto, contro cui lui e i suoi compagni predisposero una campagna di odio, o, meglio, un annuncio di morte.
E se non mi stupisce la sua proclamazione di innocenza, non sono neppure sorpreso dalla tesi giustificazionista da lui sostenuta nei giorni scorsi e che lo ha portato a spiegare l’agguato a Calabresi come “l’azione di chi volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca”. L’ex capo di Lc nella sua rubrica sul Foglio si è spinto a sostenere che il delitto “fu un atto terribile, ma ciò non significa che i suoi autori fossero persone malvagie”. Per Sofri chi sparò al commissario “fu mosso dallo sdegno e dalla commozione delle vittime”, sottintendendo che l’omicidio fu una risposta alla strage di piazza Fontana, una reazione sbagliata, ma in fondo motivata da sentimenti nobili, alti.
L’ex leader extraparlamentare in passato aveva spiegato i fatti di quegli anni con la “perdita dell’innocenza” provocata dall’attentato del 12 dicembre 1969, in cui morirono 17 persone. La bomba avrebbe strappato a lui e ai suoi compagni il candore, spingendoli a odiare, anzi, a invidiare chi odiava di più, come un giorno mi disse durante un’intervista. La tesi è che l’esplosione avrebbe sconvolto una generazione, l’avrebbe spinta a incattivirsi: avrebbe liberato la violenza, armato le mani. All’origine della colpa c’è dunque un atto di terrore. Ecco perché Sofri non vuole che si parli di terrorismo a proposito dell’agguato a Calabresi. Perché il terrorismo è quello di piazza Fontana e ovviamente è un terrorismo di stato, il resto è solo una difesa, magari non legittima, ma comprensibile. La tesi giustificazionista è comune a molti protagonisti di quegli anni, anche a quelli del partito armato. Devono spiegare, devono trovare un appiglio per motivare la loro lucida follia, altrimenti apparirebbero per quel che sono: criminali. Politici, ma sempre criminali. Cinici, egoisti, narcisisti e insensibili, come tutti i criminali.
La criminalità politica non nacque dopo piazza Fontana. Gruppi di destra ma anche di sinistra organizzarono attentati ben prima di quell’inverno di quasi quarant’anni fa. Sofri ricorda solo le bombe fasciste, che vi furono, ma dimentica le esplosioni di diverso colore, come quelle contro il Palazzo della Regione, a Trento, nella primavera del ‘68, il cui autore fu prontamente nominato “primo rivoluzionario d’Italia”, e anche quelle contro il Comune di Genova, il palazzo di giustizia di Livorno, la sede della Banca d’Italia di Milano, il palazzo di giustizia di Roma, la sede del Senato e del ministero dell’Istruzione, per cui furono condannati, con sentenza definitiva, degli anarchici. L’ex leader di Lc sorvola anche sulla riunione che diede vita alle Brigate rosse, avvenuta in un albergo di Chiavari un mese prima di piazza Fontana, e anche sulla data di nascita della XXII ottobre, la banda che uccise e terrorizzò in nome della rivoluzione.
L’estrema sinistra non diventò violenta per reazione alla strage di piazza Fontana: lo era già. E la lotta continua di Sofri per far credere il contrario la comprendo. Ma ha meno possibilità di successo di quante egli ne abbia di dimostrare la sua innocenza.
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