Qualche tempo fa Pietro Ichino, docente di diritto del lavoro e parlamentare del Pd, pubblicò un libro dal titolo A che cosa serve il sindacato?.
In poco meno di 300 pagine il professore rispondeva che, così com’è, serve a poco. O meglio: che Cgil, Cisl e Uil sono parte di un sistema bloccato, che guarda più al passato che al futuro. Nel volume si descriveva la fine dell’Alfa Romeo di Arese, una fabbrica storica che in provincia di Milano aveva rappresentato l’aristocrazia industriale della seconda metà del secolo scorso. Ichino narrava la cronaca del naufragio, il conflitto tra azienda e sindacato sulla ristrutturazione, i veti, gli scioperi, i blocchi stradali (una quarantina in un anno e mezzo), fino all’epilogo, ossia alla chiusura e alla mobilità lunga, che poi vuol dire cassa integrazione per anni, a volte dieci o anche più.
La storia mi è ritornata in mente in questi giorni, pensando a quel che sta succedendo in Alitalia, e mi ha indotto a ricordare quante volte nella mia carriera di cronista sindacale sono incappato in casi di ottusa difesa di prerogative e garanzie che non potevano più essere salvaguardate. Troppo spesso mi è capitato di toccare con mano l’incapacità del sindacato di adeguarsi a un mercato in movimento, a un’economia dove niente è più una variabile indipendente: non solo il salario, ma neppure la forza lavoro.
Una mancanza di flessibilità che molte volte si è tradotta in una condanna a morte per l’azienda, come in quel giornale in cui i tipografi rifiutarono gli investimenti in nuove tecnologie perché avrebbero costretto alcuni di loro a mutare le mansioni, portando così il quotidiano alla chiusura.
In altri paesi, per esempio in Germania, ma anche in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, i sindacati stipulano accordi che scommettono sul futuro delle imprese, condividendo gli obiettivi di crescita, ma talvolta anche i tagli e perfino le riduzioni di stipendio.
All’estero il sindacato è molto meno ideologico e più pragmatico. Evita le tristi liturgie dei cortei, l’inutile esibizione di muscoli. Bada al sodo e cerca di trovare soluzioni, scommettendo a volte addirittura su relazioni industriali cooperative. Insomma, il sindacato altrove fa il sindacato, cercando o inventando il miglior modo per proteggere i propri iscritti, ma riconoscendo che solo se l’azienda guadagna di più si possono ottenere più soldi in busta paga.
Da noi no, il sindacato difende stipendi, patti aziendali, istituti e privilegi anche se l’impresa è in bancarotta. Non accetta riduzioni, ma nemmeno scommesse. Non capisce che è interesse di tutti, dell’imprenditore ma soprattutto dei lavoratori, salvare una società e che non ha senso pattuire una retribuzione supertutelata se poi la compagnia non è in grado di pagarla perché i conti non tornano.
La vicenda dell’Alitalia da questo punto di vista non è solo la storia esemplare di un disastro industriale (in cui, beninteso, la politica e i governi, di destra e di sinistra, hanno la responsabilità più grave, se non altro perché toccava a loro amministrare la società), ma anche la conclamata dimostrazione che il sindacato italiano è superato. I suoi dirigenti sono pronti a parlare di tutto (anche dei diritti civili nei paesi più lontani), tranne che dell’inefficacia del modello di contrattazione. Vorrebbero regolare ogni cosa dall’alto, mettendo agli iscritti una corazza che li difenda dall’andamento dei conti economici. Ma non si rendono conto che l’armatura non salva il lavoratore: rischia solo di schiacciarlo, insieme con l’azienda che gli dà lavoro.