di Antonio Signorini
È il sacro Graal del giornalismo d’inchiesta e sindacale. E proprio come il calice dell’ultima cena, il «bilancio consolidato» della Cgil ha assunto un alone mistico, si è smaterializzato per diventare simbolo, non tanto degli ideali e degli obiettivi irraggiungibili, quanto dell’opacità e del potere sindacale. Chi conosce anche il più remoto cantuccio della confederazione guidata da Guglielmo Epifani giura che - al pari di quelli delle altre centrali sindacali - il bilancio della Cgil nel suo complesso in realtà non esiste. E che per pesare tutte le attività economiche della Corso d’Italia Spa ci si debba rassegnare a spulciare la bellezza di 2.500 documenti contabili. Ogni categoria ha il suo. E ogni livello centrale di una federazione va moltiplicato per le mille stratificazioni territoriali.
Tutti i dati ovviamente confluiscono alla centrale romana, ma la sintesi è conservata gelosamente come il peggiore dei segreti. Non è nemmeno messa nero su bianco per evitare fughe di notizie. Perché è nota la resistenza dei sindacati a qualsiasi tentativo di rendere pubblica la loro contabilità.
«Profitti» in tempi di crisi. È meno conosciuto, invece, il piglio aziendale con il quale il primo sindacato del Paese gestisce le sue risorse economiche. Un’amministrazione oculata che, per fare un esempio recente, ha portato l’ultimo bilancio confederale - quello, tanto per intenderci, che riguarda solo il palazzo di Corso d’Italia, non tutto il sindacato - in attivo per 643mila euro. Un piccolo «profitto» per la testa del sindacato, firmato dal riservatissimo tesoriere Lodovico Sgritta, contro un rosso che l’anno precedente era di 560mila euro, realizzato in tempi decisamente grami per famiglie e imprese.
Epifani come Bombassei. Nonostante tutto non è impossibile farsi un’idea di quanto valgono le attività economiche di Corso d’Italia e delle sue controllate. Un miliardo all’anno è una delle ultime stime, mai smentita. Tanto per farsi un’idea è quanto fattura una multinazionale del made in Italy come la Brembo di Alberto Bombassei, delegato alle relazioni industriali per Confindustria, controparte di Epifani in più di una trattativa. Solo che la Cgil non produce sofisticati sistemi di frenaggio. Vende tessere. Poi fornisce servizi per conto dello Stato, pagati profumatamente dal contribuente. Si serve di «lavoro» pagato dalla pubblica amministrazione attraverso i distacchi retribuiti. Infine sfrutta ogni possibilità di finanziamento pubblico: dai fondi per l’editoria, al cinque per mille passando per i «gettoni» di presenza in vari organismi pubblici.
Il caro tessera. A sostenere il primo sindacato italiano sono soprattutto i 5.604.741 aderenti (dato 2007). Il costo della tessera che pagano al momento dell’iscrizione e le trattenute che ogni mese si ritrovano in busta paga. La percentuale per il momento varia da categoria a categoria, ma presto potrebbe essere uniformato e, per molti, aumentare. Nella relazione dell’ultima conferenza di organizzazione è scritto chiaramente. Per il 2008 è in agenda «la realizzazione dell’obiettivo di generalizzare la quota dell'1% di contribuzione per chi si iscrive alla Cgil». In questo modo al sindacato arriverebbero circa 600 milioni. Per il momento la confederazione si deve accontentare di una cifra che si dovrebbe aggirare intorno ai 400 milioni di euro l’anno; 250 milioni che provengono dai 2,7 milioni di lavoratori attivi iscritti e altri 140 milioni dai 2,8 milioni di pensionati che pagano quote di iscrizione e contributi sindacali più bassi.
Come un commercialista. Non c’è vertice organizzativo della Cgil dedicato alla pecunia, al quale non partecipi anche «l’area servizi». Perché il sindacato che più si oppone all’idea del sindacato di servizio, cara invece alla Cisl, è in realtà quello che incassa la fetta più consistente di risorse pubbliche per svolgere compiti dello Stato in sussidiarietà. Ad esempio dal Fisco. Perché ormai non c’è dichiarazione dei redditi che non possa passare dai Centri di assistenza fiscale. Ai Caf di Epifani, secondo le stime fatte da Giuliano Cazzola, vanno 38 milioni sui 186 milioni totali che i centri, generalmente emanazione di un sindacato o di un’associazione, incassano. Poi c’è il «contributo volontario» che l’interessato versa ai Caf, che può arrivare a 25 euro, nel caso in cui non sia iscritto al sindacato, e che ha portato ai centri circa 175 milioni di euro. Se le proporzioni sono rispettate alla Cgil toccano circa una trentina di milioni. Un’altra decina vanno invece per la compilazione del cosiddetto redditometro (l’Ise e l’Isee) per le famiglie che hanno diritto a prestazioni sociali, per il quale lo stato versa nel complesso circa 45 milioni di euro l’anno.
Monopolio sui pensionati. C’è poi il capitolo patronati, che presidiano il ricchissimo mercato dell’assistenza per le pratiche con gli istituti previdenziali, l’Inps in primo luogo. E che si occupano anche di sanità. Le scartoffie per richiedere la pensione passano praticamente tutte da questi centri di assistenza. Una torta da 400 milioni l’anno, della quale la Cgil, tramite il suo patronato che si chiama Inca, si aggiudicherebbe circa 80 milioni l’anno.
Lavoro gratis. Non poteva mancare nella «Cgil corporate», una gestione più che efficiente delle risorse umane. Il sindacato di Epifani spicca anche nella classifica dei distacchi retribuiti nella pubblica amministrazione. Un diritto che, una volta «monetizzato», si trasforma in un affare milionario per i sindacati che possono contare su forza lavoro gratuita. O meglio, a spese del contribuente. In tutto i distaccati della Cgil sono circa 1.134. E le giornate lavorative «sottratte» agli uffici dove lavoravano circa 330mila. Approssimativamente, dei 120 milioni l’anno che lo Stato «paga» ogni anno per i distacchi sindacali (senza contare i permessi retribuiti), la Cgil si aggiudica un bonus-lavoro gratis da 32 milioni di euro.
Varie ed eventuali. Insomma, se si materializzasse il bilancio della Cgil, tutte questa voci di finanziamento, pubblico e privato, sarebbero le più pesanti. Perché valgono più di 600 milioni di euro. Ma poi ce ne sarebbero molte altre. Ad esempio tutto il capitolo della formazione. Con i fondi europei e le trattenute in busta paga dello 0,30 per cento. Qualche decina di milioni in quota Cgil, visto che nel complesso la partita della formazione vale 200 milioni di euro. I contributi all’editoria delle società controllate che editano la galassia dei media targati Cgil, dalla gloriosa Rassegna sindacale alla nuovissima Articolo uno, la web radio di Epifani. Ci sono le società partecipate dalla Cgil che offrono servizi ai Caf. A voler essere cattivi si potrebbero conteggiare anche i gettoni di presenza che percepiscono i sindacalisti. Se fossero asset di una azienda, ma anche emanazioni di un partito politico potremmo pesare tutte queste attività. Un obbligo alla trasparenza che riguarda tutti, tranne i sindacati.