di Michele Brambilla
Sembra una tragicomica parabola tipicamente italiana quella della nostra lotta armata, iniziata con le rapine per autofinanziamento e finita con una richiesta di finanziamento pubblico. Oggi infatti a Roma si discute se inserire Miccia corta, un film tratto dal libro dell’ex terrorista Sergio Segio, tra quelli «di interesse culturale nazionale», e come tale meritevole di un contributo ministeriale. Tanto per dare al lettore un’idea delle cifre, ogni anno lo Stato italiano contribuisce al nostro cinema con una cinquantina scarsa di milioni di euro, e solo per Miccia corta se ne chiedono due e mezzo, la metà del costo totale del film.
Miccia corta racconta la giornata del 3 gennaio 1982, quando Sergio Segio con venti chili di tritolo fece saltare le mura del carcere femminile di Rovigo e liberò la sua compagna Susanna Ronconi. Le associazioni dei familiari delle vittime del terrorismo pongono una serie di condizioni. Non vogliono che compaiano, tra quelli degli ispiratori del film, i nomi di Segio e della Ronconi; non vogliono che i due partecipino alla campagna promozionale, e tutta una serie di altri dettagli che francamente ci sembrano appunto solo dettagli. Si possono far sparire dai titoli di coda tutti i nomi che si vogliono, ma il fatto raccontato nel film è un fatto storico, ogni spettatore saprà che Riccardo Scamarcio è Segio e Giovanna Mezzogiorno è la Ronconi. Né servirà, per nascondere la parentela con il libro di Segio, cambiare il titolo in La prima linea, come è stato proposto.
Non c’è alcun dubbio che da un punto di vista formale il film abbia i requisiti per ottenere il contributo: il regista è bravo e serio, il cast di eccellente livello, i produttori tali da garantire qualità. Ma siccome le forme non sono tutto, a noi sembra che solo in Italia può succedere che si discuta se far finanziare dallo Stato un film tratto da un libro scritto da chi voleva distruggere lo Stato.
«Non sarà un’apologia del terrorismo», assicurano quelli del film. Le buone intenzioni sono fuori discussione. Ma è difficile non pensare che anche una «libera interpretazione» non risenta dell’anima del libro. E l’anima del libro la si legge anche sul sito dell’autore: «Nel libro Miccia corta, Segio descrive una delle azioni più clamorose e audaci della lotta armata in Italia: l’assalto al carcere di Rovigo con cui liberò la sua compagna e altre tre detenute politiche». «Clamorosa» e «audace»: sono questi gli unici due aggettivi con cui Segio descrive quell’«azione»: nel corso della quale, va ricordato en passant, morì un poverocristo di pensionato che passeggiava con il cane. Eh no signor Segio: quell’azione va chiamata con i nomi suoi, infame e omicida, non clamorosa e audace.
Ma tutto il racconto di Segio corre sul crinale di un pericoloso giustificazionismo: sempre dal sito www.micciacorta.it, leggiamo che «il libro ripercorre le lotte e i movimenti degli anni Settanta, descrive le origini della scelta della ribellione armata, ricorda in dettaglio le stragi fasciste e le deviazioni istituzionali che contribuirono a innescarla». È la solita truffaldina tesi secondo la quale il terrorismo di sinistra fu una reazione a quello fascista e di Stato.
Che cosa succederebbe se la strage di Marzabotto venisse raccontata al cinema ispirandosi a un racconto di Walter Reder? E l’eccidio delle Fosse Ardeatine andasse sullo schermo «liberamente tratto» da uno scritto di Herbert Kappler? È bastato che Spike Lee facesse un film non corrispondente all’immagine della Resistenza fissata da Giorgio Bocca per far gridare mezzo Paese alla lesa maestà, anzi alla lesa storia.
Sì, lo sappiamo: il fascismo divide ancora. Ma le ferite delle Br sanguinano ancora. E anche se non invochiamo censure, a noi pare rischioso che chi negli anni Settanta non c’era o era troppo piccolo si faccia raccontare il brigatismo da un Segio, e se lo faccia trasformare in Historia de amor y revolución dai volti belli della coppia Scamarcio-Mezzogiorno. E visto che è rischioso, ci manca solo che lo paghi il contribuente.
Michele Brambilla