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 VIA L'ULTIMO TABU' DELLA GIUSTIZIA, di Bruno Vespa Data: 14/10/2008
Appertiene alla sezione: [ Opinione ]
“Noi oggi abbiamo un processo con due parti, accusa e difesa, e un giudice. Di queste tre persone, due hanno fatto lo stesso concorso. Frequentano lo stesso ufficio, sono colleghi e si danno del tu. La terza persona deve dare del lei alle altre due. Già questa differenza di toni confidenziali fa cadere la parità tra le parti. Per ripristinarla, noi vogliamo separare la carriere dei magistrati giudicanti da quella del pubblico ministero”. Angelino Alfano ha le idee chiare. Nella lunga conversazione che abbiamo avuto per il mio libro Un’Italia diversa. Viaggio nella rivoluzione silenziosa (Rai Eri Mondadori) fa cadere l’ultimo tabù.
La carriera unica per tutti i magistrati non esiste in alcun paese occidentale. Da noi le ultime riforme hanno progressivamente reso più accidentato il passaggio da una funzione all’altra. Però il ministro della Giustizia vuole andare oltre: separazione netta. “Non abbiamo ancora stabilito se dividere i concorsi o far decidere al candidato la destinazione dopo l’ammissione” dice il ministro “ma non c’è dubbio che per garantire la perfetta parità tra accusa e difesa il sistema migliore è una separazione netta”.

Non si rischia in questo modo di legittimare un “partito dei pm”? “No” risponde Alfano. “Adesso i pubblici ministeri sono 2 mila su 9 mila magistrati e sono bene identificati dal punto di vista funzionale. Non vedo quindi il rischio di una cristallizzazione maggiore”.
Possibilità di passaggi da una carriera all’altra? «Negli ultimi anni il legislatore si è progressivamente orientato a impedirlo. Non vedo perché dovremmo nuovamente allargare le maglie. Meglio consentire una specializzazione».
Altra obiezione: il Pd sarà contrario e l’Associazione nazionale magistrati farà le barricate. E gli alleati di Forza Italia? “Nessun problema” dice Alfano. “La Lega va addirittura oltre teorizzando che i magistrati debbono essere eletti come negli Stati Uniti. E An è d’accordo con noi”.
Sarà naturalmente necessaria una riforma costituzionale, ma Alfano non intende avanzarla fino a compromettere l’indipendenza del pubblico ministero. “Non vogliamo sottoporre l’ufficio dell’accusa al governo come accade negli altri paesi” dice “per due ragioni. La prima è che la separazione delle carriere è sufficiente da sola ad assicurare la parità delle parti. La seconda è che commetteremmo l’errore dei politici della Prima repubblica nel considerarci eterni. Quando al potere dovesse tornare l’attuale opposizione, conosciamo troppo bene la sensibilità verso i temi della giustizia di alcuni pezzi della sinistra per immaginare che avrebbero un rapporto sereno e distaccato con i pubblici ministeri”.
L’altro punto qualificante della riforma giudiziaria è la trasformazione del Consiglio superiore della magistratura. “I costituenti” sostiene Alfano “non immaginavano certo un Csm diviso in correnti con dinamiche per l’individuazione dei vertici degli uffici giudiziari che indussero il presidente Carlo Azeglio Ciampi a scrivere, dicendo che era diventata inaccettabile l’attesa di accordi tra le diverse componenti per decidere su incarichi delicatissimi”.
Il governo non ha deciso se i Csm saranno uno o due, “ma certamente” annuncia il ministro, “i magistrati saranno in minoranza. C’è un’ipotesi (Luciano Violante e altri) che prevede un terzo eletto dal Parlamento, uno dai magistrati e uno scelto dal capo dello Stato. Un’altra due quinti di nomina parlamentare, altrettanti scelti dai magistrati e un quinto dal capo dello Stato. Personalmente sono per un’alta percentuale di nomina parlamentare, magari con maggioranza qualificata per garantire l’opposizione, perché, con tutti i limiti della politica, il Parlamento è pur sempre espressione della volontà popolare. E le Camere potranno anche scegliere i magistrati”.

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