di Mario Cervi
«Lo Stato ci ha trattato come criminali comuni, negando valenza politica a ciò che abbiamo fatto; anche per questo io sono qui» (ossia a Rebibbia). Così ha dichiarato, in un’intervista al Corriere della Sera, Rita Algranati: che fu brigatista rossa nella colonna romana, che partecipò alle sanguinarie imprese dell’organizzazione, che secondo alcune testimonianze era nel «commando» di via Fani, che ha subìto condanne a cinque ergastoli, che nel 2004 è stata arrestata in Egitto dopo una lunga latitanza e trasferita in Italia.
La militante del partito armato ha riaffacciato, nel suo sfogo, tutte le risapute tesi difensive dei terroristi. La violenza rossa fu la risposta a una violenza di segno opposto che si respirava ogni giorno, è irrazionale voler giudicare le persone di oggi come se fossero quelle di decenni or sono (il che vale a quanto pare solo per i giustizieri della P38, non per i decrepiti relitti delle SS). Ma soprattutto la tesi massima, che sposta il problema e la storia degli anni di piombo dal terreno giudiziario a quello politico e storico. La tesi è che fu combattuta in quegli anni una guerra: anomala, impropria, ma guerra. Da una parte istituzioni oppressive, retrive e all’occorrenza spietate, dall’altra una gioventù rivoluzionaria che si ribellava. «Anche se sembra una contraddizione - spiega Rita Algranati - la lotta armata è nata dall’odio per l’ingiustizia, ma pure per la violenza».
Chiacchiere. Non voglio essere troppo polemico nei confronti d’una donna che è detenuta. Ma il brigatismo rosso - come quello nero - è stato proprio ciò che i suoi ex militanti negano sia stato: criminalità. Il fanatismo, e magari anche la convinzione di obbedire a istanze ideali, non assolve chi, vivendo in un Paese democratico e dunque potendo disporre di tutti gli strumenti politici e culturali per informarsi e per liberamente votare, ritenne fosse necessario abbattere bersagli umani innocenti. Nessuna guerra, perché l’assassinio premeditato contro inermi non ne fa parte.
Potrebbe sembrare superfluo sottolineare tutto questo ora che la stagione cupa dei giustizieri per la causa si è allontanata, ma non lo è. Mentre un coro politicamente corretto grida al revisionismo di destra, assistiamo invece a un sotterraneo revisionismo di sinistra pro terrorismo; rafforzato da libri e articoli autogiustificativi di «reduci» (bacchettati, per il loro presenzialismo ed esibizionismo impudente, dalla Algranati). È un revisionismo mirante ad attribuire alla stagione di piombo la nobiltà delle buone intenzioni, la stessa con cui i nostalgici del «socialismo reale» tentano di riscattare non solo un Lenin, ma perfino uno Stalin.
A questo slancio di redenzione - che è insieme umanitaria e ideologica - non è stato estraneo il presidente francese Sarkozy quando, tramite Carla, ha deciso che Marina Petrella non sia estradata. Marina Petrella, si dice, è molto malata. Sarà anche vero, ma ricordo la mobilitazione dei progressisti italiani (anni Settanta) per sottrarre Petra Krause, una tedesca coinvolta nel terrorismo, non alla Lubianka, ma alle prigioni svizzere. Una volta autorizzata a rimanere in Italia, la Krause recuperò la salute, ultimamente si è sospettata una sua implicazione in nuove trame eversive. Malatissima anche Silvia Baraldini, sottratta alle galere degli Stati Uniti, e presto liberata. L’Italia ha un buon clima. A maggior ragione, che senso ha l’appello alle cattive condizioni di salute? Sarkozy non conosce l’Italia? Crede che da noi i detenuti malconci siano lasciati morire? La giustizia italiana ha innumerevoli peccati: quasi tutti e quasi sempre d’indulgenza, non d’eccessiva severità.
Siamo seri. Tutto questo sottintende, o sembra sottintendere, che lo spargere sangue per politica sia un reato minore e quasi un non reato. Sarkozy dà l’impressione di voler tornare all’idea mitterrandiana che i terroristi fuggiti dall’Italia fossero rifugiati politici, e che non dovessero esserci consegnati se in Francia rigavano dritto. È inutile precisare che non siamo d’accordo.
Mario Cervi