di Vittorio Macioce
È un futuro in bianco e nero, come un vecchio film. Molti di questi ragazzi non hanno neppure vent’anni. Sono nati quando il muro cadeva, con i violini che suonavano a Berlino, e qualcuno pensava che la storia stava arrivando al capolinea. No, era solo il Novecento che frenava, dopo un secolo di corsa, con un grande, liberatorio, scossone. Nessuno, di questi studenti infagottati nei cortei, ha mai visto il cielo degli anni ’70. Quel poco che sanno è roba di quarta mano, digerita in fretta sui banchi di scuola, in qualche spezzone tv, come un mito riscaldato, una minestra ideologica senza più una briciola di realtà, di senso, fuori tempo. È spesso la nostalgia dei loro insegnanti, che non hanno mai accettato di invecchiare davvero. Questa «settimana calda», con i cori anti Gelmini, ha il sapore di un remake e come tutte le copie è ancora più triste dell’originale. Guardi i volti di chi sfila sotto il nome di collettivo studentesco e ti chiedi da quale passato sono spuntati fuori, da quale corridoio spazio-temporale sono arrivati, parcheggiati in ritardo su questa terra. Non erano caduti con il Muro anche i collettivi studenteschi? E invece sono qui, con slogan logori, picchetti, tamburi, megafoni e sampietrini, con il cadavere di Che Guevara sulle bandiere. Qualcuno ha rubato la fantasia e questi sono i risultati. Guardare queste immagini ti fa sentire prigioniero di una palude, di un passato che non passa, di quella mucillagine evocata da De Rita nel rapporto Censis.
È come il giorno della marmotta, il quel film Ricomincio da capo con Bill Murray, dove ogni alba ripete se stessa, la stessa giornata, gli stessi riti, le stesse facce, lo stesso destino. Quasi sorridi quando vedi un cellulare, un iPod, la sagoma di Ibra su un giornale, con lo scudetto al petto, un jeans Dolce&Gabbana. È il segno che non sei tornato bambino, anche se per un attimo quasi ci speravi, e riaffiora solo il vaghissimo ricordo di una Renault 4 rossa vista in tv, un’immagine sbirciata per un attimo al Tg1 dell’ora di pranzo, poco prima di andare a tirare qualche calcio a un pallone. Ecco. Quello che spaventa di questi studenti in piazza è l’assenza di futuro. Davanti ai cancelli dell’università sono tornati i picchetti. Tutti a casa, oggi non si fa lezione. E vedi i pendolari che sgranano gli occhi, in bambola come le vittime di scherzi a parte. Non ci credono. Sono partiti che era ancora buio, per nulla. Non si discutono neppure le tesi e qualcuno piange davvero. Niente laurea. Festa rimandata. Ci rivediamo alla prossima volta, se siete fortunati. E ancora una volta a rimetterci, in questa sbornia da collettivi e autogestione, sono i più deboli, quelli che arrivano dalla periferia, quelli che devono laurearsi il più presto possibile, perché lo stipendio e il salvadanaio dei genitori ha il fiato corto. E i sensi di colpa ti devastano l’anima.
Cosa c’è di nuovo in questa storia? Poco. Tranne una manciata di tattiche da guerriglia. Il corteo, a Milano e Bologna, si dirige verso i binari. Bloccare i treni, puntare al caos, immobilizzare il Paese. E questo arriva dal vandalismo nichilista degli ultrà, dagli affari sporchi delle mobilitazione anti discarica, da Pianura e da Chiaiano, dal disfattismo ideologico dei tanti no global, no Tav, no tutto. È il sentimento nostalgico, reazionario, di chi sogna di cristallizzare il mondo. Ma in nome di cosa protestate? Volete davvero difendere la scuola così com’è? Questa scuola, ridotta a una miseria, vecchia, inutile, senza speranza. Non vi piace la riforma della Gelmini? Va bene. Protestate. Ma per qualcosa di nuovo. Non per difendere lo sfascio. Vi siete arroccati nella cittadella del nulla, un fantasma del tempo remoto. Rompete questo incantesimo. E il giorno della marmotta, finalmente, passerà.