Tra Antonio Di Pietro e gli eredi del vecchio Partito comunista c’è da 15 anni un susseguirsi di conti in sospeso. Ai tempi di Mani Pulite, Carlo Sama, braccio destro di Raul Gardini, entrò nel palazzo della direzione dell’allora Pds in via delle Botteghe Oscure con una valigetta contenente un miliardo di lire e ne uscì senza. I magistrati di Milano accertarono l’episodio, ma si dissero impotenti a stabilire se Sama fosse salito al secondo piano (la segreteria) o al terzo (l’amministrazione). E non perseguirono nessuno. Quando a Di Pietro viene contestato questo inconsueto fallimento investigativo, l’ex pubblico ministero si difende dicendo che lui avrebbe voluto che nell’aula del processo fossero ascoltati come testi Achille Occhetto e il suo vice Massimo D’Alema, ma la richiesta non ebbe corso.
D’Alema non ha mai amato Di Pietro: le sue opinioni sulla magistratura, nel segreto dell’animo, sono molto più vicine a quelle di Silvio Berlusconi che non al simbolo di Mani Pulite. E Di Pietro è stato sempre un uomo di centrodestra: se non fosse stato bloccato dal suo capo Francesco Saverio Borrelli e dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, forse non avrebbe rifiutato nel 1994 la carica di ministro dell’Interno fattagli balenare da Berlusconi. Anche se lui, fedele al saggio principio che i governi passano e le cariche restano, avrebbe preferito fare il capo della Polizia, come confidò a un collega magistrato.
Fu dunque per un reciproco calcolo di fredda realpolitik che nel 1996 D’Alema, ormai segretario del Pds, offrì a Di Pietro un seggio parlamentare nel collegio blindato del Mugello. A chi gli rimproverava quel gesto innaturale, D’Alema rispose con la consueta aria di sufficienza: “Meglio tenerlo dentro che fuori”. Il suo parere più tardi mutò.
Walter Veltroni ha fatto un discorso analogo proponendo al leader dell’Italia dei Valori l’alleanza alle elezioni del 13 aprile. La cultura e la visione politiche di Di Pietro sono agli antipodi del Pd. Il riformismo del parlamentare molisano su alcuni punti rilevanti del programma (a cominciare dalle infrastrutture) vengono annichiliti dalla visione giustizialista-rivoluzionaria. Veltroni decise di annacquare irreparabilmente la storica decisione di “andare da soli” perché un paio di sciagurati sondaggi lo convinsero di poter pareggiare, se non vincere. Il famoso sms di Dario Franceschini, spedito ai quadri dirigenti del partito nel primo pomeriggio della domenica elettorale (”Nel rispetto della legge, diamoci da fare. Si può vincere”) la dice lunga sull’intera strategia democratica.
È finita come sappiamo. Incassati i seggi necessari, Di Pietro rimase zitto un paio di giorni e poi annunciò che non avrebbe fatto gruppo unico col Pd come promesso prima del voto. Da allora la rottura definitiva è stata annunciata ripetutamente da Veltroni: dall’adunata di piazza Navona, in luglio, al road show televisivo di questi giorni per lanciare la manifestazione di sabato 25 ottobre. Annunciata, ma ancora non consumata, fino a quando Leoluca Orlando, a dispetto dei santi, resterà candidato alla presidenza della Commissione di vigilanza Rai. Ma una grande affermazione Di Pietro l’ha comunque ottenuta, rosicchiando molti voti al Pd (per ora nei sondaggi) e costringendo Veltroni a una posizione meno moderata. Se nelle situazioni locali critiche, come in Abruzzo, Pier Ferdinando Casini correrà davvero da solo nel timore di perdere consensi a destra, l’unione contro natura tra il Pd e Italia dei Valori è destinata a rafforzarsi. Anche se è l’ultima cosa che Veltroni desidera.