EDITORIALE DI MAURIZIO BELPIETRO
Alcuni cronisti del Giornale hanno intervistato gli studenti della scuola superiore che contestano la riforma Gelmini, chiedendo di spiegare i motivi della protesta. Ne è venuto fuori che una parte non irrilevante degli scioperanti non sa perché sciopera. Alcuni pensano che il maestro unico voglia dire un docente per ogni alunno, altri che si tratti di un solo insegnante per ogni scuola. Più della metà degli intervistati è convinto che il ministro dell’Istruzione voglia diminuire le ore dedicate all’insegnamento della Costituzione. Insomma, molte idee e ben confuse.
La confusione regna sovrana anche tra gli universitari, che manifestano e bloccano gli atenei. Luca, uno dei capi della rivolta dentro la Statale di Milano, sentito dalla Repubblica, assicura che «la protesta non finirà fino a quando il decreto Gelmini non sarà ritirato», senza sapere che non esiste alcun decreto Gelmini che riguarda l’università. Il provvedimento messo a punto dal ministro e in attesa di essere convertito in legge tocca solo le scuole elementari e medie, mentre ciò per cui si agitano docenti e studenti è semmai la Finanziaria che è stata approvata nell’agosto scorso e non può essere ritirata perché è già legge dello Stato.
Ma tra mille slogan strampalati, ne ho sentito uno che va al cuore della questione ed è quello che ripete che l’università non è della Gelmini e di Tremonti, ma degli studenti e dei docenti. Ecco, questo è il punto. Da una ventina d’anni gli atenei sono in mano ai docenti. I rettori e il senato accademico hanno un’autonomia che consente loro di organizzare gli studi, creare nuovi insegnamenti e corsi di laurea, fare assunzioni e spendere. Il risultato è un disastro finanziario: 20 università su 94 sono sull’orlo della bancarotta, altre sono indebitate.
Sono stati gonfiati gli organici, moltiplicate le sedi, sprecate risorse. In alcuni atenei il numero dei professori è arrivato a superare quello degli amministrativi. Solo negli ultimi 6 mesi sono stati banditi concorsi per assumere 2.219 docenti e ricercatori, senza che nella maggior parte dei casi vi fossero i posti disponibili. In due decenni si sono create più di 300 sedi distaccate, alcune anche in comuni di poche decine di migliaia di abitanti, come a San Giovanni Valdarno, un paese di 17 mila persone dove l’Università di Siena ha aperto il suo dipartimento di geotecnologie.
In Italia esistono 5.500 corsi di laurea con 170 mila insegnamenti, il doppio che negli altri paesi europei. Più di 300 facoltà non superano i 15 iscritti, molti corsi hanno meno di dieci alunni. In qualche caso, come dimostra l’inchiesta del nostro Antonio Rossitto, si sono lanciati in avventure imprenditoriali assai discutibili, mettendosi a produrre bibite e a imbottigliare vino, oppure fondando radio che diffondono musica.
Di fronte a un fallimento di tale proporzioni, invece di dimettersi, molti vertici universitari continuano a salire in cattedra. Accusano il governo di avere tagliato i fondi e di voler privatizzare gli atenei, aizzando gli studenti. In realtà più che i tagli (nel 2009 la riduzione dei fondi è di 63,5 milioni di euro, che non basterebbero a ripianare il deficit di una sola delle università vicine al crac) ciò che duole a questi cattivi maestri è il freno alla loro libertà di spesa. E per capirlo non serve un corso di laurea: basterebbe leggere con attenzione il bilancio di uno di questi istituti e studiare i meccanismi dei concorsi e delle spese universitarie.
Forse si comprenderebbe anche perché l’Italia, nonostante investa una cifra analoga a quella della Gran Bretagna, abbia solo un ateneo fra i 200 più importanti del mondo: al centonovantaduesimo posto. Mentre la Gran Bretagna ne ha 29, e quattro sono tra i primi dieci.