E' stato celebrato oggi in tutta Italia il 90° Annniversario della Vittoira. A Roma e poi a Redipuglia il Capo dello Stato ha reso omaggio a nome del Paese ai Caduti di tutte le guerre, deponendo corone di alloro all'Altare della Patria e al Sacrario di Redipuglia. A Bari, come da sempre, la Giornata dedicata alle Forze Armate e all'Unità Nazionale è stata cfelebrata con la solenne cerimonia al Sacrario dei Caduti d'Oltremare dove riposano le spoglie di 57 mila Caduti della 2° Guerra Mondiale. A rappresentare il Governo è intervenuto il Ministro per gli Affari Regionali on. Raffaele FITTO che, presente il Presidente del Senato SCHIFANI ha tenuto l'orazione ufficiale di cui riportiamo integralmente il testo.
Discorso del Ministro FITTO al Sacrario Militare di Bari - 4 novembre 2008 -
Signor Presidente del Senato
Autorità
Signore e signori
Ricordiamo oggi il novantesimo anniversario di quel 4 Novembre 1918 che vide, con la nostra vittoria, la fine di una guerra che ben presto dal comune sentire sarebbe stata definita la Grande Guerra.
Se per gli storici essa prese il nome di Prima Guerra Mondiale nell’immaginario collettivo essa si sostanziò in quell’aggettivo Grande.
E Grande fu per estensione dei fronti che investirono non solo il cuore dell’Europa ma anche il Vicino e Medio Oriente, fino ad estendersi in aree spesso remote dell’Africa e dell’Oceania perchè anche i possedimenti coloniali delle grandi potenze belligeranti vennero, in diverse misure, coinvolti nel conflitto.
Grande per le immense perdite di vite umane non soltanto tra i militari e per le gravissime sofferenze delle numerose comunità nazionali che vi parteciparono e ancora ingenti furono i danni materiali e morali.
La dismisura di quell’evento venne percepita, tra l’altro, per la modernità della tecnologia bellica che, per la prima volta, fu dispiegata sui diversi fronti e per gli esiti terribili che l’uso di tali mezzi ebbe a comportare.
L’impiego su larga scala, tra l’altro, della guerra aerea e sottomarina rese esplicito il debutto sulla scena del conflitto di una potenza distruttrice fino allora sconosciuta.
L’Italia pianse ben più di mezzo milione di morti e soccorse quasi un milione di feriti.
600mila tra prigionieri e dispersi.
Ai morti, ai feriti, ai dispersi, alle loro famiglie va, ancora oggi, quasi un secolo dopo, il nostro rispetto assoluto e il nostro affetto più sentito.
Non in secondo piano la nostra gratitudine se consideriamo la Grande Guerra come l’ultimo episodio per la costruzione dell’unità nazionale, il termine ultimo di un percorso di sacrificio che prese le mosse con il Risorgimento e che, nella sostanza, definì l’identità non solo territoriale del Paese.
Nelle sanguinose battaglie sull’Isonzo e nell’ancor più drammatica e logorante guerra di posizione, nelle trincee le nostre Forze Armate sperimentarono per la prima volta l’incontro tra le diverse identità del Paese e la loro conduzione ad unità non solo d’intenti ma di sentire.
E’ un tema sul quale, pur con accenti diversi, sono state scritte infinite pagine dagli storici ma altrettante affiorano in una memorialistica molto meno conosciuta e negli epistolari tra i militari e le loro famiglie.
Non è retorica celebrare anche qui, a Bari, il ricordo di quella guerra e di quella vittoria. Non vi è paese di Puglia e del Mezzogiorno, pur piccolo o piccolissimo che non abbia il suo monumento, a volte modesto, che riporta alla memoria i nomi di quanti caddero tanto lontano dalle loro case, tra monti o su mari per lo più sconosciuti. Che cosa erano per un contadino pugliese o siciliano il Carso o il Cadore? La stragrande maggioranza dei giovani italiani poco o nulla sapeva del Piave e dell’Isonzo e ancor meno di quell’episodio che innescò il conflitto, quell’attentato del 28 Luglio 1914, a Sarajevo, che costò la vita all’Arciduca Francesco Ferdinando e alla sua consorte. Per convenzione storica fu quell’assassinio il casus belli che innescò il primo conflitto che molto rapidamente assunse dimensioni mondiali.
Tutti avrebbero appreso, molti al prezzo della vita, che l’Italia non era fatta soltanto di mare, pianure e Appennini e avrebbero appreso che l’Italia stava costruendo una sua unità e una sua identità nella turbolenta Europa di inizio secolo, lacerata da odi e rancori secolari e nella quale le violente tensioni prodotte dalla crisi di alcune grandi potenze stavano portando a una guerra dopo la quale nulla e nessuno sarebbe più stato come prima.
Nemici e alleati sconosciuti avrebbero occupato l’immaginario dei nostri giovani soldati e dei nostri ufficiali e, per converso, una ruvida divisa grigioverde sarebbe stata per la prima volta uguale per tutti. Quante volte abbiamo letto della babele dei dialetti nelle trincee sulle Dolomiti? E ancora quante volte abbiamo sentito parlare della sorpresa, dopo l’aprile del 1917, di trovarsi accanto dei commilitoni che parlavano un’altra lingua e venivano dai lontani Stati Uniti d’America?
Quanto accadde tra il 1915 e il 1918 fu Grande anche in questo. Grande e terribile ma fondò una parte rilevante dell’unità del Paese, della sua identità e della sua percezione nella collocazione sullo scenario mondiale.
Ma la grandezza dell’evento che oggi ricordiamo va ascritta anche a ciò che immediatamente lo precedette, a ciò che accadde nel suo svolgersi e soprattutto ai suoi esiti. Da una parte uno sviluppo e una crisi economica e finanziaria senza precedenti e dall’altra l’incombere di quella che sarebbe stata ricordata come la Rivoluzione d’Ottobre.
Nuove correnti di pensiero si affermavano oltre l’Atlantico e tra Mosca e San Pietroburgo e l’Italia non ne restò immune. Pur con una certa qual debolezza di fondo quelle correnti di pensiero attraversavano le diverse sensibilità del nostro paese.
A ripensare alla eterogeneità dei fronti degli interventisti e dei neutralisti sembra di cogliere già in nuce i semi di un carattere proprio della cultura e della politica italiane, quella sua capacità di dividersi anche aspramente ma nell’infausta occasione della guerra si dimostrò di sapere poi ritrovare una sostanziale unità.
Ma non possiamo certo dimenticare oggi che il Pontefice dell’epoca aveva lo stesso nome di quello attuale.
Benedetto XV si adoperò con tutte le sue forze per la pace fino a definire, nella Nota del 1 Agosto 1917, “Inutile Strage” il conflitto in corso. Quel Papa ancora nel 1920, a guerra finita quindi, nella sua prima enciclica mise in guardia “verso i germi degli antichi rancori”, dimostrando così di saper coniugare una grande forza profetica e un’acuta visione dello scenario internazionale di quel tempo.
I cattolici italiani si impegnarono fino all’ultimo per la pace ma nello stesso tempo in tanti caddero in guerra nell’adempimento del loro dovere verso la comunità nazionale. Una tragedia nella tragedia alla quale va un nostro pensiero particolare.
Oggi un altro Benedetto siede sul soglio di Pietro e non si risparmia nell’esortare alla pace, alla composizione dei conflitti e nella difesa delle tante comunità cristiane i cui diritti religiosi e civili vengono spesso conculcati ed offesi. Ancora una grande forza profetica e un’acuta visione dello scenario internazionale che abbiamo il dovere di ascoltare.
A novant’anni di distanza la memoria della Prima Guerra Mondiale non va dispersa, né relegata nei manuali di storia.
Quanto accadde dopo l’attentato di Sarajevo, lungo tutto il conflitto e ancora dopo la firma del Trattato di Versailles e nel dispiegarsi delle conseguenze della Grande Guerra è la lezione di storia politica, economica e sociale la memoria della quale va tutelata per trarne insegnamento. In quegli anni il baricentro della storia si spostò dall’Europa agli Stati Uniti e verso il suo contrappeso sovietico e una parte determinante dell’Europa precipitò nelle condizioni che preludevano a un nuovo, inimmaginabile conflitto.
Se oggi ricordiamo quel 4 Novembre 1918 e se lo facciamo in questo luogo e in tutti quelli dedicati alla memoria dei caduti in guerra è perché in quel sacrificio si è fondata un’unità e un’identità nazionale. Unità e Identità che hanno retto alle prove terribili del Novecento e che oggi ci appaiono ancora più solide. Va ricordato oggi il significato e il valore che in quell’occasione testimoniarono le nostre Forze Armate.
Se oggi il Governo italiano celebra insieme le Forze Armate e l’Unità nazionale è perché fu l’abnegazione e il sacrificio di tanti militari a sostanziare quell’Unità, a difenderla, a renderla possibile a farne patrimonio comune del Paese. Voglio sottolineare che parlo di un dato non soltanto storico ma umano e culturale inequivocabilmente affermato nella coscienza civile del Paese.
Celebriamo così quelle stesse Forze Armate che, lo ha ricordato di recente il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, oggi su più fronti di crisi del mondo, prestano la loro opera per il mantenimento della pace e per il soccorso alle popolazioni civili.
E’ questa l’occasione anche per rilevare l’apprezzamento e la stima che i nostri militari riscuotono in ambito internazionale per la qualità della loro azione in contesti estremamente delicati ed altamente rischiosi.
E’ giusto oggi ricordare anche quei militari che in tempi recenti hanno perso la vita nel compimento del loro dovere e certo non è retorico sottolineare che tanti di loro sono meridionali e, in un recentissimo episodio, pugliesi che assolvevano al dovere di una missione di addestramento.
Unità e identità si è detto. Unità e identità che si fondano nella difficile temperie risorgimentale e che trovano il loro punto di consolidamento nella congiuntura estrema della Prima Guerra Mondiale.
A quella data che oggi ci appare remota del 4 Novembre 1918 dobbiamo molto del nostro oggi.
Non appaia nè volo pindarico, né concessione all’attualità dire che se oggi possiamo avviare un nuovo assetto federale dello Stato, lo possiamo fare nella certezza della forza di quella unità e quella identità.
Il carattere solidale della riforma federale avviata non risiede meramente nei meccanismi di un’equità finanziaria e di una corretta distribuzione delle risorse.
Sarebbe ancora troppo poco se si trattasse solo di un tecnicismo finanziario.
Quel carattere solidale ha una radice molto più solida e profonda e coglie le ragioni stesse dell’essere comunità nazionale, dell’appartenenza alla stessa comunità, al medesimo patrimonio culturale costituito da una pluralità di genti e di storie che ha liberamente scelto di essere un unico Paese.
Quel carattere solidale e unitario è scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione.
Di questo 4 Novembre 1918, a novant’anni di distanza, abbiamo bisogno oggi nell’incombere di una crisi finanziaria globale per la quale spesso sono state evocate la data del 1929 e la tragedia della Repubblica di Weimar. Il Novecento è stato secolo di grandi catastrofi che presero l’avvio proprio con la Grande Guerra ma anche di grandi rinascite e dell’affermazione della democrazia come scelta irrinunciabile e irreversibile.
E’ avendo a mente quanti nella Prima Guerra Mondiale e nel Novecento diedero la vita per l’unità, per l’identità nazionale e per la democrazia che riconfermiamo il nostro lavoro e il nostro impegno.