Ho vissuto due mesi e mezzo a New York durante la campagna elettorale. Si capivano bene due cose, a girare e parlare, leggere e osservare. Che gli americani avevano deciso di dimenticare l’11 settembre. Che avevano bisogno di essere protetti. Per questo azzeramento della prospettiva psicologica e storica c’era un solo candidato che fosse giovane abbastanza, abbastanza fuori dai vecchi giochi, non collaudato dai corridoi di Washington, ed era Barack Obama. Uno solo che fosse nero, dunque radicalmente nuovo, una promessa di cambiamento con il timbro genetico. Uno solo che si fosse dichiarato fin dal principio contro la guerra in Iraq, sempre lui. Uno solo che avesse un curriculum di protettore della comunità, «community organizer», con idee socializzanti che si sposavano bene con le conseguenze vere o immaginarie della crisi finanziaria, con ansie e paure diffuse. E uno solo che avesse la tonalità religiosa giusta, la capacità di ispirare, di cantare la politica della speranza. Di nuovo lui, Obama.
Bush, Cheney, Rumsfeld avevano tenuto fede al patto con gli americani dopo l’11 settembre. Fare la guerra al terrore e proteggere il suolo nazionale. Proseguire la dura rivoluzione conservatrice di 30 anni, che ha prodotto prosperità, lavoro in dimensioni inimmaginabili, ma ha richiesto uno standard di responsabilità e libertà individuale che alla fine è sembrato, quando è venuta meno la fiducia, solitudine e abbandono. Ci sono riusciti, alla testa dell’Occidente, e hanno ottenuto risultati che la storia riconoscerà loro.
Ma con un costo drammatico, che le democrazie mediatiche moderne non sono più in grado di sopportare. Non solo la spesa paurosa in centinaia di miliardi di dollari. Non solo il costo di vite umane dell’una e dell’altra parte, e quel pallottoliere di fanti e marines caduti ogni giorno sotto l’occhio dei cittadini con la conta fatta dalle televisioni.
Il costo era alto nelle fibre del paese, nei suoi comportamenti da stato d’eccezione. Guantanamo era necessaria, ma dura da mandare giù. La concentrazione di poteri immensi nelle mani dell’esecutivo e del presidente non era evitabile, ma suscitava quella diffidenza che la campagna di stampa liberal si incaricava di trasformare in orrore, e alla fine addirittura in disprezzo. Così a poco a poco, e in un tempo rapidissimo che coincide con la carriera di Obama, cominciata sulla scena nazionale con il suo discorso alla convention democratica di Boston del 2004, gli errori di George Bush e Dick Cheney sono diventati derive catastrofiche dell’uragano Katrina, dei salari stagnanti e dei prezzi crescenti del petrolio in un’economia reale florida ma che distribuiva poco, con dietro sempre l’ombra di una guerra irachena che sembrava non finire e peggiorare sempre.
La via d’uscita era dimenticare, ritrovarsi al sole dopo la nebbia della guerra. Ridurre il ricordo dell’11 settembre, protagonista del confronto di soli quattro anni fa, a dolore privato. Il capro espiatorio era stato trovato, ed era Bush, il presidente da disprezzare nei sondaggi. Bisognava però anche fare leva sulla speranza per cominciare ad abitare nel futuro, e questo era il senso di decine di conversazioni con americani di ogni tipo intercettati qua e là. Con John McCain si poteva fare un viaggio nella storia dell’eroismo militare e della buona vecchia politica dell’onore personale, ma non nel futuro. Per questo c’era il salto di fede nel giovane nero abile e tenace che voleva unire l’America e farla di nuovo sognare.