di Giovanni Marizza
Il 12 novembre scorso, nel quinto anniversario della strage di Nassiriya, il Ministro della Difesa Ignazio La Russa ha deposto una corona di alloro presso l’Altare della Patria in ricordo dei diciannove caduti italiani: diciassette militari e due civili. Fra i tantissimi messaggi, quello del presidente Napolitano che ha espresso il suo “personale, commosso ricordo”.
Dopo la funzione religiosa officiata nella basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, al Senato è stata scoperta una targa che dedica la sala stampa alla memoria delle vittime di Nassiriya e di tutti gli Italiani caduti nel corso dell’operazione “Antica Babilonia” in Iraq. Successivamente, incontrando i parenti delle vittime, il Ministro della Difesa ha dichiarato “Lavorerò per accogliere il Vostro desiderio affinché d’ora in poi il 12 novembre diventi il giorno del ricordo dei Caduti nelle missioni di pace”. In tal senso un apposito disegno di legge è stato immediatamente presentato al Senato.
Giustissimo. Tutte iniziative sacrosante, soprattutto quella dell’istituzione della giornata del ricordo, anche in considerazione di un fatto che nessuno ha sottolineato: la quarantaseiesima settimana dell’anno, quella in cui ci troviamo, ci dovrebbe far rammentare anche un’altra strage, avvenuta quasi mezzo secolo fa ai tempi della decolonizzazione del Congo ex belga, un Paese che proprio in questi giorni ci sta ricordando di non essere ancora per nulla pacificato.
Il 16 novembre 1961 a Kindu, nell’ormai “ex” Congo belga, tredici aviatori italiani vennero massacrati dai ribelli. I nostri erano effettivi alla 46^ aerobrigata di stanza a Pisa e facevano parte del contingente di caschi blu dell’ONU inviato a ristabilire l’ordine in quel Paese sconvolto dalla guerra civile. La guerra era improvvisamente scoppiata il mese precedente a seguito dell’uccisione di Patrice Lumumba, il primo ministro che stava portando il Congo nell’orbita sovietica. Mandante dell’omicidio di Lumumba era Moise Ciombe, leader della provincia secessionista del Katanga, appoggiato dal presidente della repubblica Joseph Kasavubu e dal capo delle forze armate Mobutu Sese Seko, il quale avrebbe in seguito retto le sorti del Paese per circa quarant’anni.
Oggi un bianco monumento marmoreo ricorda quei tredici martiri presso l’aeroporto di Fiumicino, ma non sempre l’Italia è sollecita nel dare tutti i giusti riconoscimenti ai propri figli. Talvolta ci vogliono trentatre anni. Infatti solo nel 1994 è stata riconosciuta alla memoria di quei tredici aviatori la medaglia d’oro al valor militare. E solo nel 2007 i parenti delle vittime hanno ottenuto una legge sul risarcimento.
Le due missioni in esame, quella congolese e quella irakena, erano molto diverse fra di loro non solo per il momento storico e per la collocazione geografica. La prima era una missione di peacekeeping dell’ONU e la seconda un’operazione di stabilizzazione e ricostruzione nell’ambito di una coalizione. Quelli erano aviatori e questi carabinieri, militari dell’esercito e civili. Ciò che accomuna tutte le vittime è il supremo sacrificio.
Alle vittime dell’attentato di Nassiriya, inoltre, sono state intitolate numerose vie, piazze e monumenti un po’ in tutta Italia. Ma c’è stato anche chi ha gridato “Dieci, cento, mille Nassiriya!” Nel 1961 nessun imbecille gridava “Dieci, cento, mille Kindu!”. Da questo punto di vista, l’Italia sta peggiorando.
Per quanto attiene ai riconoscimenti postumi, i morti ed i feriti dell’attentato irakeno sono stati insigniti di una ricompensa appositamente istituita: la Croce d’Onore, con una cerimonia tenutasi il 12 novembre 2005 presieduta dal capo dello stato Carlo Azeglio Ciampi. Per essere insigniti della medaglia d’oro al valor militare, così come chiedono i parenti, dovranno aspettare anche loro 33 anni, fino al 2036? Speriamo che stavolta le istituzioni siano più sollecite dimostrando che, almeno in questo, l’Italia sta migliorando.