di Dino Cofrancesco
All’indomani delle elezioni che hanno portato alla Casa Bianca il primo afro-americano della storia degli Stati Uniti, sia il candidato democratico vincitore, Barack Obama, sia il candidato repubblicano sconfitto, John McCain, sia il Presidente George W. Bush, con i loro discorsi, chi di commiato, chi di ringraziamento, hanno dato al mondo una lezione di stile, di compostezza, di senso profondo delle istituzioni destinati a stupire solo quanti ancora hanno nella mente il vecchio cliché della nazione giovane e semiselvaggia. Davanti al verdetto popolare i due contendenti hanno fatto un passo indietro, deposto ogni atteggiamento aggressivo, rimosso ogni inevitabile forzatura polemica ricordando, con contenuta retorica, agli americani che, al di sopra dei democratici e dei repubblicani, sta il Paese, con le sue leggi, con la Costituzione più antica del pianeta. Come aveva capito il Conte Tocqueville, siamo noi europei—e soprattutto, va aggiunto, noi italiani— ‘nuovi’ alla ‘democrazia dei moderni’: ne ripetiamo le formule imparaticce, rendiamo omaggio ai ‘padri fondatori’ ma, intimamente, diffidiamo del popolo, dell’uomo della strada, del suo buon senso e delle sue reazioni qualora non sia stato ‘educato’ (leggi:indottrinato) dalle elite, un tempo di ‘destra’, i vecchi notabili, in seguito di ‘sinistra’, le avanguardie proletarie.
Nei Souvenirs dell’aristocratico normanno, si ricorda lo sconcerto provato dai gauchiste nel 1848 dinanzi all’esito delle prime elezioni libere a suffragio universale della storia francese: “Le elezioni diedero, dunque, per la maggior parte risultati contrari al partito che aveva fatto la rivoluzione, e non poteva andare altrimenti. Tuttavia esso rimase sorpreso e assai addolorato. A misura che vedeva i suoi candidati respinti, era preso da grande tristezza e da grande collera e si lamentava ora teneramente ora rudemente degli elettori che trattava da ignoranti, ingrati e insensati, nemici del loro proprio bene; s’irritava contro la nazione stessa, e spinto agli estremi dalla sua freddezza, mi sembrava sempre sul punto di dirle come l’Arnoldo del Molière ad Agnese:’Perché non amarmi, signora impudente?’”. Allora, come da decenni in Italia, nessun leader dei partiti rivoluzionari (per i sinceri repubblicani della vigilia il discorso era diverso), riconobbe lealmente la vittoria degli avversari e se la sentì di dichiarare che quello nominato dall’Assemblea Costituente era “il governo della nazione”. L’atteggiamento più diffuso era: ‘questa volta avete vinto voi ma state pur sicuri che vi renderemo la vita difficile e che al prossimo braccio di ferro verrete piegati’. L’eterno ‘paese reale’ dichiarava di non aver nulla a che fare col ‘paese reale’ e lasciava intendere di non essere minimamente disposto a riconoscerne la legittimazione in virtù del voto popolare.
Forse dietro la retorica kennedyana di Walter Veltroni, c’era all’inizio la volontà di rompere con questa tradizione politica ‘incapacitante’, di inaugurare una nuova stagione in cui l’opposizione fosse davvero “l’opposizione di Sua Maestà” (il Popolo) e non una federazione di scontenti cronici, alla ricerca perenne di improbabili modelli sociali, radicalmente alternativi a quello capitalistico-borghese. La schiacciante vittoria del Pdl avrebbe dovuto rafforzarlo in questo progetto, facendone il capo di una minoranza parlamentare combattiva e decisa a sfidare il governo sul suo stesso terreno, quello della società aperta e del riformismo liberale.
Purtroppo alla mediocre statura dell’uomo si è unita una sinistra che il crollo dei grandi partiti ideologici ha degradato a massa informe o meglio ad arcipelago di gruppi, di movimenti, di comunità di base, di sindacati, di centri sociali, di cattolici del dissenso, di no global, di verdi oscurantisti che non potevano certo essere disciplinati a quel modo in cui i Turati e i Treves riuscirono (sia pure in parte) a trasformare il ribellismo endemico delle campagne, la rabbia sottoproletaria delle città, i fermenti rivoluzionari della nascente classe operaia in partiti e leghe responsabili, disposti a difendere le conquiste della ‘democrazia borghese’ più degli stessi ‘lorsignori’ liberali. (Alla vigilia del fascismo, furono soprattutto i Filippo Turati, gli Alessandro Levi, i Giacomo Matteotti a tenere alta la bandiera delle libertà statutarie e dei diritti civili e politici). Non meraviglia che il politico—raffigurato da Giorgio Forattini, nelle sue vignette su ‘La Repubblica’, come un lombrico--, sia stato sedotto dal più demagogico e pericoloso dei politici ‘antagonisti’. Da Antonio Gramsci ad Antonio Di Pietro! Mai parabola fu più triste e inquietante. Forse l’approdo alla linea populistico-caudillista sudamericana (la mens di Di Pietro—ma anche il fisico—non sembra molto diversa da quella di Hugo Chavez…) rappresenta un minor male rispetto alla linea giacobino-bolscevica di partenza : ma,vivaddio!, almeno nella seconda c’era un residuo di ancoraggio all’Occidente, all’illuminismo, a Rousseau—sia pure pervertiti e messi al servizio del Gulag—mentre nella prima c’è solo il preannuncio della nostra prossima ventura mediterraneizzazione, un rintocco a morte per l’Europa di Hume e di Montesquieu.
Quanto l’allievo Veltroni abbia interiorizzato gli insegnamenti del maestro Di Pietro, mostra la recente vicenda della Commissione di Vigilanza della RAI, comunque vada a finire. L’opposizione, cui tocca per una buona regola di fair play, il presidente ha proposto un nome-simbolo, quello dell’esponente dell’Italia dei Valori, una vecchia conoscenza palermitana, Leoluca Orlando. A ragione o a torto, il parlamentare—già sindaco del capoluogo siciliano—è un personaggio molto discusso (chiedere informazioni a Francesco Cossiga…) ,che il ‘repechage’ ha trasformato in fedelissimo prefetto del pretorio del capopopolo molisano. Per quest’ultimo, la nomina significa chiaramente il guanto di sfida al suo nemico mortale: "hai tre canali televisivi, i tuoi uomini sono presenti nei quadri direttivi della RAI ebbene beccati questa umiliazione: al vertice della Commissione di Vigilanza troverai un mastino che scombinerà tutti i tuoi giochi!”.
Per chi è totalmente estraneo allo spirito delle democrazie atlantiche non si pone neppure il problema della scelta equilibrata, della collaborazione con l’avversario quando il terreno è quello istituzionale e l’intesa va cercata nell’interesse di tutti. Come un contadino molisano affamato di terre, il padrone dell’Italia dei Valori ha una concezione militare della lotta politica, dove non ci sono zone di nessuno ma ogni posizione espugnata deve servire a preparare incursioni e rivincite future.
Una nobile Weltanschauung bene espressa nel commento di Veltroni all’elezione del senatore PD, Riccardo Villari, alla presidenza della Vigilanza: è stato “un atto di arroganza, inimmaginabile, qualcosa di mai visto prima nella storia istituzionale di questo paese”. Che si sia trattato di un atto “mai visto prima nella storia istituzionale di questo paese” è un fatto ma perché dovrebbe venire riguardato come un vulnus delle regole del gioco? Perché non dovrebbe passare il principio in base al quale se una determinata carica istituzionale compete alla minoranza la scelta deve avvenire in una rosa di nomi proposta dalla stessa minoranza? Una prassi del genere innescherebbe un circolo virtuoso destinato, indirettamente, a ripercuotersi sul momento più delicato della vita di una democrazia liberale: la selezione delle elite. I partiti non sarebbero certo costretti a selezionare parlamentari e amministratori destinati “a piacere anche agli avversari” ma inevitabilmente sarebbero portati a dare più spazio a un personale politico, per onestà e competenza, meritevole del rispetto di tutti.
Le Rosy Bindi, i Franceschini --che trovano intollerabile che un partito interferisca in casa d’altri--, allievi degli allievi di Di Pietro, debbono spiegare, in maniera convincente, dove sta lo scandalo se un governo e una maggioranza invitano l’opposizione a proporre nomi di persone equilibrate, ‘istituzionali’ capaci di un confronto anche duro e irriducibile sui temi più controversi ma alieni da qualsiasi animosità personale e, soprattutto, dal modello “io, quell’uomo lo sfascio!”.
A ben guardare, con la loro intemperanza e aggressività verbale, Veltroni & C., implicitamente dividono i loro seguaci in ‘molli’ e ‘duri’ e temono che la scelta dell’infida maggioranza di centro-destra possa ricadere sui primi (che potrebbero chiamarsi Antonio Polito o Franco Debenedetti). Se però il timore è questo, è facile evitare in avvenire qualsiasi rischio: basta estromettere dai collegi sicuri gli Umberto Ranieri, gli Enrico Morando (e forse anche un Massimo D’Alema, alla luce delle sue nostalgie ‘bicamerali’) e, al loro posto, infoltire le pattuglie parlamentari di uno, cento, mille Leloluca Orlando. In questo modo, la maggioranza si troverebbe sicuramente a mal partito, non trovando tra gli avversari nomi prestigiosi da votare : ma quale vantaggio ne verrebbe all’Italia, agli istituti della democrazia e, in termini elettorali, alla stessa minoranza attuale? In realtà, in un sistema politico civile, la vera divisione è tra politici coscienziosi e competenti, poco inclini alla demagogia, e militanti faziosi ed ‘enragés’ che ritengono loro dovere “non dar tregua all’avversario” e fare della tribuna, di qualsiasi tribuna istituzionale, un megafono per delegittimare il governo in carica.
Il fatto è che del “paese” e degli “istituti della democrazia” alla sinistra postcomunista, non riformista e cattolico-ulivista non gliene potrebbe fregare di meno. Un antico riflesso condizionato la porta ancora oggi al “muoia Sansone con tutti i filistei”: al di là dei programmi, dei partiti, degli uomini, non ha mai visto la ‘comunità politica’ come bene di tutti, come casa comune. Lo Stato liberale, per lei, è uno spazio da conquistare e da redimere non un’eredità storica da custodire gelosamente.
All’indomani della sconfitta elettorale, Veltroni non avrebbe mai potuto dire come John McCain ai suoi elettori: “ Esorto tutti gli americani che mi hanno sostenuto a unirsi a me non soltanto per fargli le congratulazioni per la sua vittoria, ma per offrire al nostro presidente la nostra disponibilità e i nostri sforzi più convinti per trovare dei modi per marciare uniti, per trovare i necessari compromessi, per superare le nostre divergenze e per contribuire a riportare la prosperità, a difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e a lasciare ai nostri figli e nipoti un paese più forte, un paese migliore di quello che noi abbiamo ricevuto”. Anzi, se qualche tecnico di alto profilo professionale, di area centro-sinistra, avesse accettato di far parte del governo Berlusconi, in un momento tanto difficile per il nostro paese, avrebbe fatto la figura di un membro della Concentrazione antifascista di Parigi convinto da Mussolini ad assumersi un incarico ministeriale.