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 PERCHE' L'ITALIA NON AVRA' OBAMA Data: 18/11/2008
Appertiene alla sezione: [ Opinione ]
EDITORIALE DI MAURIZIO BELPIETRO

Barack Obama ha eccitato anche la politica italiana. L’elezione del senatore dell’Illinois ha galvanizzato i molti che discutono della necessità di un cambiamento ai vertici del nostro Paese. «Ah, avessimo anche noi un Obama» sospirano. Qualcuno nei dintorni del Pd si è pure spinto a dire che il Barack de’ noantri è Walter Veltroni, perché come il nuovo presidente degli Stati Uniti ha una vision. Con la differenza che il prossimo inquilino della Casa Bianca non aveva le visioni quando si diceva certo della vittoria. «I care, we can, they win», io mi prenderò cura, noi possiamo, loro vincono: così Edmondo Berselli, politologo di sinistra, sbeffeggia nel suo ultimo libro il leader del Pd, parafrasando lo slogan che ha regalato alla sua parte una bruciante sconfitta.

Tra Veltroni e Obama l’unica similitudine possibile è che entrambi sono esponenti di partiti che si autodefiniscono democratici: ma, oltre al nome, il Pd italiano e quello a stelle e strisce non hanno quasi niente in comune. Diversa la storia (l’uno è l’evoluzione della specie del più grande partito comunista dell’Occidente, l’altro del più grande partito liberal del Nuovo mondo), diversi i programmi. Ma differente è soprattutto la carriera dei due leader: Veltroni è in politica da 32 anni, è stato eletto parlamentare per la prima volta 21 anni fa e ha vinto delle primarie costruite su misura per lui; Obama nel 2004 era ancora un borsista dell’Università di Chicago e solo tre anni fa è diventato senatore e le primarie se le è sudate. In sintesi: il segretario del Pd non è nuovo, il presidente americano sì.

Ma, al di là delle ardite similitudini, seguendo i sospiri di chi invoca il cambiamento, potrà mai da noi spuntare uno sconosciuto che in tre anni sbaraglia la concorrenza dei burocrati di partito e diventa capo del governo? Se si rivolge la domanda a esponenti del centrodestra la risposta è facile: Silvio Berlusconi si gettò in politica e in pochi mesi vinse le elezioni, è lui il nuovo, il più simile a Barack. Ma il Cavaliere non spuntò dal nulla, era un imprenditore importante e molto ricco, che investì parte del proprio capitale al servizio di un’idea, ossia quella di fermare i comunisti, e vinse. Anche se con punti di contatto (il senso della sfida, per esempio), la sua vicenda politica si distacca da quella del neopresidente americano.

La verità è che da noi uno sconosciuto non ha nessuna chance di arrivare dov’è arrivato Obama e non già perché non ci siano giovani uomini e donne che abbiano voglia di emergere, di rompere gli schemi. E neppure perché questi giovani non abbiano il denaro per finanziarsi una candidatura. Più semplicemente non abbiamo un Obama perché nessuno degli aspiranti è disposto a rinunciare a una carriera promettente (in un ateneo, nel caso del presidente Usa), accollandosi il rischio di una campagna elettorale. Quando Barack si candidò, nel 2004, lui e sua moglie guadagnavano 207 mila dollari. Due anni dopo, divenuto senatore, il reddito era sceso a 157 mila dollari. Pur di credere nel suo sogno, Obama era disposto a incassare meno.

Ma la colpa non è solo dei giovani e meno giovani candidati, ma anche di quella che solitamente si autodefinisce società civile. Per arrivare alla Casa Bianca il nuovo presidente ha avuto bisogno di molti fondi, spesi in più di un anno di campagna elettorale. I soldi gli sono arrivati da piccole donazioni, 50 o 100 dollari. Ma i tre quarti dei 640 milioni di dollari rastrellati gli sono giunti da medi e grandi investitori. Industriali, finanzieri, banchieri hanno creduto in Barack e lo hanno sorretto non solo a parole, ma anche col proprio portafoglio. Il successo di Obama è sì il successo di uno sconosciuto, ma non di un uomo isolato. Dietro il nuovo presidente c’è la forza di un paese che crede in un’idea.

Indipendentemente dal candidato, che si tratti di Veltroni, Berlusconi o di un giovane emergente, ciò che serve all’Italia è un forte blocco sociale che sostenga il cambiamento. Non con gli slogan da piazza, ma con gli argomenti.

Volete cambiare l’università? Volete modificare la struttura dello Stato e ridurne gli sprechi? Volete farla finita con l’assistenzialismo? Volete che le famiglie abbiano redditi migliori e paghino meno tasse? Beh, cari signori, è ora di farsi avanti prima che sia troppo tardi. Perché le rivoluzioni (liberali, ovviamente) non le fa un uomo solo al comando.

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