DI LUCA RICOLFI
Con il decreto legge 180, andato in Gazzetta ufficiale lunedì 10 novembre, il governo è finalmente intervenuto sulle università. Era ora, perché le regole stabilite dalla Finanziaria di giugno, proprio perché uguali per tutti gli atenei, erano profondamente ingiuste. Tagliando i finanziamenti pubblici e bloccando quasi interamente i concorsi, la mannaia di Giulio Tremonti finiva per punire sia gli atenei peggiori (che meritano la punizione) sia gli atenei migliori (che non la meritano). Con le nuove regole, gli atenei peggiori subiranno conseguenze ancora più dure (blocco totale delle assunzioni), mentre quelli più virtuosi cominceranno a usufruire di alcuni benefici, sia pure in senso relativo: maggiore possibilità di sostituire chi va in pensione (50 per cento dei posti liberati, contro il 20 per cento precedente), maggiori finanziamenti legati alla qualità della didattica, della ricerca e dell’amministrazione (oltre 500 milioni).
Vedremo presto come il ministero deciderà di allocare questo tipo di fondi. A prima vista il problema è semplice: i fondi dovrebbero essere distribuiti premiando gli atenei «virtuosi» e punendo quelli «viziosi». C’è un problema, tuttavia: quando si cerca di stilare una classifica, l’ordine degli atenei cambia a seconda del criterio prescelto. Talora cambia poco, altre volte cambia radicalmente. Gli atenei che sono ottimi sul criterio X possono diventare mediocri, e talora pessimi, sul criterio Y. E viceversa. Contrariamente a quanto siamo portati a credere, le diverse virtù spesso divergono fra loro.
L’efficienza economica, per esempio, non va necessariamente d’accordo con la qualità della didattica e della ricerca. Queste ultime, invece, vanno relativamente d’accordo fra loro. In pratica questo significa che gli atenei più efficienti (conti in ordine) possono anche avere cattive prestazioni nella didattica, nella ricerca o in entrambe, mentre è raro che un ateneo che fa della buona ricerca faccia però della cattiva didattica.
Se la «virtù universitaria» non esiste, perché è fatta di almeno due sottovirtù, per distinguere fra loro gli atenei non possiamo costruire una graduatoria unica ma dobbiamo considerarne almeno due: l’efficienza (economica) e la qualità (della didattica e della ricerca). Usando per l’efficienza i dati ministeriali del rapporto fra spese fisse e Ffo (fondo di finanziamento ordinario) e per la qualità l’indice sintetico del Sole 24 Ore, possiamo farci un’idea di come le due virtù sono distribuite nelle principali zone socioeconomiche del Paese (vedere il grafico).
L’efficienza economica è massima in Lombardia e minima nelle cosiddette regioni rosse (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche), mentre assume valori intermedi nel resto del Paese. Quanto alla qualità della didattica e della ricerca, essa è massima nel Centro-Nord, con punte di particolare eccellenza nel Nord-Est e nel Nord-Ovest in senso stretto (senza la Lombardia), mentre risulta decisamente scadente nel Mezzogiorno e nel Lazio.
Possiamo sintetizzare tutto ciò dicendo che esistono, in Italia, almeno quattro sistemi territoriali distinti, che possiamo sinteticamente descrivere con due codici: A e B per la qualità alta o bassa della didattica e della ricerca, 1-2-3 per il grado di efficienza economica. Il tipo A1 (qualità & alta efficienza) prevale in Lombardia, il tipo A2 (qualità e media efficienza) prevale nel resto del Nord, il tipo A3 (qualità e bassa efficienza) prevale nelle regioni rosse, il tipo B2 (poca qualità e media efficienza) prevale nell’Italia dal Lazio in giù. Speriamo che, nel varare le norme sul finanziamento degli atenei, il ministro Mariastella Gelmini non ignori queste differenze.