Un lettore si lamenta di quel che ho scritto nel numero scorso. Siccome non ci sono risorse per sostenere le famiglie, nel mio editoriale invitavo il governo a fare di più mettendo mano alla riforma delle pensioni, chiudendo le finestre che consentono di ritirarsi dal lavoro a 58 anni. Leonardo Sottile, che scrive da Palermo, sostiene che la soglia attuale è puramente teorica, perché a 58 anni si maturano i diritti, ma non è detto che si lasci subito il posto, giacché l’Inps ci mette sei mesi e anche più a versare il primo assegno di quiescenza. E poi da luglio dell’anno prossimo la finestra passa da 58 a 59 anni. Insomma, siamo quasi a 60 anni, che a giudizio del lettore siciliano bastano e avanzano per godere del diritto di riposarsi dopo 35 anni di lavoro.
Ognuno è libero di pensarla come vuole. Anche le insegnanti che andavano in pensione a 19 anni sei mesi e un giorno erano certe di essersi meritate il riposo. Ma il problema non è quanto sia giusta una misura, giudizio sempre opinabile, ma se quella misura sia compatibile con le finanze pubbliche, o, meglio, con le condizioni delle famiglie. Visto che questi sono tempi grami, dove i salari non tengono il passo con il carovita, forse sarebbe ora di dare un taglio a ciò che non ci possiamo permettere, risparmiando circa 10 miliardi di euro.
Nell’articolo della scorsa settimana, ricordavo che in altri paesi si discute se innalzare a 67 e in qualche caso addirittura a 70 anni l’età pensionabile: da noi parlare di 65 è considerata dal sindacato una provocazione. Eppure la vita media si è allungata e un sessantacinquenne oggi non è una persona alla fine della propria esistenza, ma ha mediamente di fronte ancora 20 anni di vita. Capisco che per molti ritirarsi dal lavoro è considerato un diritto, ma i diritti cozzano con la realtà dei numeri che non quadrano.
Detto questo, per non sembrarvi fissato con la storia delle pensioni, aggiungo un altro paio di interventi che potrebbero consentire di recuperare qualche decina di miliardi da mettere a disposizione dei lavoratori dipendenti e delle famiglie per migliorare il loro potere d’acquisto, anche se si tratta di interventi che hanno bisogno di tempo per essere realizzati.
Primo: l’abolizione delle province. Era un impegno del governo, ma inspiegabilmente l’esecutivo se n’è scordato, forse per non creare nuovi disoccupati fra le centinaia di consiglieri e assessori che percepiscono congrui gettoni di presenza. Cancellare le province, secondo un recente calcolo dell’istituto di ricerche Eurispes, consentirebbe di risparmiare 10,6 miliardi di euro, senza licenziare neppure uno dei quasi 63 mila impiegati, i quali potrebbero essere ricollocati in altre amministrazioni pubbliche. Dunque, perché non si fa? Misteri della politica, o meglio della Casta.
Secondo intervento. Nell’ultimo anno mi è capitato di visitare molti ospedali della Lombardia, pubblici e privati. Ho incontrato medici capaci, infermieri gentili e professionali. La regione guidata da Roberto Formigoni sul piano dell’assistenza sanitaria è considerata virtuosa, perché spende meno delle altre e gli ospedali godono di miglior fama, tanto da attirare ogni anno 70 mila malati da fuori regione che qui vogliono farsi curare. Mi domando: quando si comincerà a metter mano alla spesa sanitaria? Se la Lombardia spende poco più di 1.500 euro per abitante perché il Lazio arriva a 2 mila, pur garantendo prestazioni di livello inferiore? E perché la Campania spende 1.700 euro per ogni assistito, ma quasi 50 mila campani ogni anno emigrano verso gli ospedali di altre regioni, Lombardia in testa?
Secondo l’osservatorio del Nord-Ovest basterebbe dare un taglio a questi sprechi per recuperare 20 miliardi l’anno. Avete idea di come si potrebbero aiutare le famiglie con i 20 miliardi gettati in una cattiva sanità e con i 10 bruciati dalle province? Aggiungeteci poi gli altri 10 delle pensioni e ditemi se questo è un paese povero. Credetemi: è tanto ricco da buttare al vento la sua ricchezza. l Un lettore si lamenta di quel che ho scritto nel numero scorso. Siccome non ci sono risorse per sostenere le famiglie, nel mio editoriale invitavo il governo a fare di più mettendo mano alla riforma delle pensioni, chiudendo le finestre che consentono di ritirarsi dal lavoro a 58 anni. Leonardo Sottile, che scrive da Palermo, sostiene che la soglia attuale è puramente teorica, perché a 58 anni si maturano i diritti, ma non è detto che si lasci subito il posto, giacché l’Inps ci mette sei mesi e anche più a versare il primo assegno di quiescenza. E poi da luglio dell’anno prossimo la finestra passa da 58 a 59 anni. Insomma, siamo quasi a 60 anni, che a giudizio del lettore siciliano bastano e avanzano per godere del diritto di riposarsi dopo 35 anni di lavoro.
Ognuno è libero di pensarla come vuole. Anche le insegnanti che andavano in pensione a 19 anni sei mesi e un giorno erano certe di essersi meritate il riposo. Ma il problema non è quanto sia giusta una misura, giudizio sempre opinabile, ma se quella misura sia compatibile con le finanze pubbliche, o, meglio, con le condizioni delle famiglie. Visto che questi sono tempi grami, dove i salari non tengono il passo con il carovita, forse sarebbe ora di dare un taglio a ciò che non ci possiamo permettere, risparmiando circa 10 miliardi di euro.
Nell’articolo della scorsa settimana, ricordavo che in altri paesi si discute se innalzare a 67 e in qualche caso addirittura a 70 anni l’età pensionabile: da noi parlare di 65 è considerata dal sindacato una provocazione. Eppure la vita media si è allungata e un sessantacinquenne oggi non è una persona alla fine della propria esistenza, ma ha mediamente di fronte ancora 20 anni di vita. Capisco che per molti ritirarsi dal lavoro è considerato un diritto, ma i diritti cozzano con la realtà dei numeri che non quadrano.
Detto questo, per non sembrarvi fissato con la storia delle pensioni, aggiungo un altro paio di interventi che potrebbero consentire di recuperare qualche decina di miliardi da mettere a disposizione dei lavoratori dipendenti e delle famiglie per migliorare il loro potere d’acquisto, anche se si tratta di interventi che hanno bisogno di tempo per essere realizzati.
Primo: l’abolizione delle province. Era un impegno del governo, ma inspiegabilmente l’esecutivo se n’è scordato, forse per non creare nuovi disoccupati fra le centinaia di consiglieri e assessori che percepiscono congrui gettoni di presenza. Cancellare le province, secondo un recente calcolo dell’istituto di ricerche Eurispes, consentirebbe di risparmiare 10,6 miliardi di euro, senza licenziare neppure uno dei quasi 63 mila impiegati, i quali potrebbero essere ricollocati in altre amministrazioni pubbliche. Dunque, perché non si fa? Misteri della politica, o meglio della Casta.
Secondo intervento. Nell’ultimo anno mi è capitato di visitare molti ospedali della Lombardia, pubblici e privati. Ho incontrato medici capaci, infermieri gentili e professionali. La regione guidata da Roberto Formigoni sul piano dell’assistenza sanitaria è considerata virtuosa, perché spende meno delle altre e gli ospedali godono di miglior fama, tanto da attirare ogni anno 70 mila malati da fuori regione che qui vogliono farsi curare. Mi domando: quando si comincerà a metter mano alla spesa sanitaria? Se la Lombardia spende poco più di 1.500 euro per abitante perché il Lazio arriva a 2 mila, pur garantendo prestazioni di livello inferiore? E perché la Campania spende 1.700 euro per ogni assistito, ma quasi 50 mila campani ogni anno emigrano verso gli ospedali di altre regioni, Lombardia in testa?
Secondo l’osservatorio del Nord-Ovest basterebbe dare un taglio a questi sprechi per recuperare 20 miliardi l’anno. Avete idea di come si potrebbero aiutare le famiglie con i 20 miliardi gettati in una cattiva sanità e con i 10 bruciati dalle province? Aggiungeteci poi gli altri 10 delle pensioni e ditemi se questo è un paese povero. Credetemi: è tanto ricco da buttare al vento la sua ricchezza.