Inchiesta di DANIELE MARTINI per PANORAMA
In Italia le grandi opere non si fanno mai. Ecco il risultato di una inchiesta pubblicata da Panorama.
Negli ultimi quattro anni sono stati presentati 70 progetti per la costruzione di linee elettriche ad alta tensione. Secondo una legge approvata nel 2004, le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto esprimere una valutazione favorevole o contraria entro 180 giorni, ma 70 volte su 70 non hanno rispettato i tempi. Nel migliore dei casi si sono fatte vive dopo un anno, nel peggiore mai. Gli elettrodotti non sono le uniche vittime della lentocrazia. Strade, centrali, termovalorizzatori, ferrovie, metropolitane, rigassificatori: da anni tutto ciò che sa di grande infrastruttura spesso sparisce inghiottito dalle sabbie mobili dei veti.
Alcuni giorni fa il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha raccontato al Corriere della sera uno dei casi più grotteschi della voglia di intralciare che si è impadronita di molti in Italia. Proprio mentre Venezia era sommersa da un’ondata di acqua alta da record degli ultimi 22 anni, il ministro ha spiegato che il completamento del Mose, sistema che salverebbe la città dalle maree, rischia di slittare per l’ennesima volta a causa di un variegato fronte dell’interdizione. Gli anti Mose si sono appellati all’Europa sostenendo che l’opera darebbe noia agli uccelli selvatici della laguna e la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese. Nel frattempo il governo italiano ha concordato con la Bei (Banca europea degli investimenti) la concessione dei fondi necessari per ultimare l’infrastruttura (ferma a metà dell’opera), finanziamenti che, però, potrebbero essere ritirati nel caso l’Europa non archiviasse la denuncia per gli uccelli.
Quello del Mose (un progetto nato in seguito all’alluvione del 4 novembre 1966) sta diventando una sorta d’emblema di quanto costa il non fare in Italia: se potessimo contare sulla velocità che hanno gli olandesi nell’approvare e costruire dighe e frangiflutti, l’acqua alta di Venezia sarebbe un ricordo di qualche decennio fa.
Dall’ultimo comunello fino ai ministeri passando per regioni e province, in Italia tutti sembrano impegnati, invece, in una gara a chi frena meglio. Quando a maggio Stefania Prestigiacomo si è insediata al ministero dell’Ambiente, ha trovato la bellezza di 159 pratiche Via (valutazione di impatto ambientale) ferme da anni e solo in autunno la macchina delle autorizzazioni è stata rimessa in moto.
Ma la buona volontà di un ministro da sola non basta, è tutto il meccanismo che non gira. Dietro l’apertura di un cantiere c’è un gioco dell’oca che sembra escogitato da un folletto maligno incantato dal potere dei timbri.
Ogni amministrazione vuol mettere il suo, in qualche caso ce ne vogliono addirittura 14 o 15 compresi quelli della Forestale e delle comunità montane. Spesso si creano eterogenee alleanze trasversali, diverse volta per volta a seconda delle opere da bloccare.
Ci si mettono politici che puntano a trarre vantaggio dalle contestazioni, o magari semplicemente a blandire il proprio bacino elettorale. Poi ci sono i comitati «Nimby», che non vogliono le grandi opere nel proprio territorio: dai no Tav della Val di Susa alle associazioni antiinceneritori in Campania, dai vari no ai rigassificatori a quelli alle centrali nucleari o alle centrali a carbone. E poi una selva di burocrati, fermi sul concetto che non fare sia molto meglio che fare: chi non fa, infatti, non sbaglia mai. A unire tutti i paladini dei fronti del no c’è la certezza dell’impunità: nessuno pagherà mai i costi del non avere fatto.
Nel decreto anticrisi di alcuni giorni fa il governo ha inserito una norma specifica per limitare il potere diffuso d’interdizione, ma ora bisognerà vedere all’atto pratico se riuscirà a raggiungere lo scopo. Finora è successo perfino che Enel, Autostrade, Ferrovie, Terna, cioè le società che dovrebbero rinnovare il Paese con grandi opere, prima di presentare ufficialmente un progetto si siano sottoposte volontariamente a una specie di via crucis non prevista da alcuna legge intavolando una trattativa con gli enti locali che può durare anche 5 o 6 anni, sovente in un clima da suq, tra richieste, furbizie, sgambetti e concessioni.
Alla fine di questo percorso di guerra oratorio il progetto passa alla Via regionale e poi a quella nazionale e infine alla Conferenza dei servizi, un parlamentino di 60-70 tra amministratori, generali, vigili del fuoco, funzionari ministeriali che si riunisce quando può e quando vuole. Se il progetto supera anche questo scoglio, approda alle firme dei ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, in qualche caso neanche queste bastano perché l’ultima parola ritorna alla regione se è a statuto speciale.
Nel frattempo sono passati anni e si sono accumulati i danni. Un trentennio fa la rete di autostrade italiane era più lunga di quella francese e tripla di quella spagnola, oggi la Francia ha il 65 per cento di km più di noi e la Spagna il 75. Tra il 2000 e il 2005 gli spagnoli hanno inaugurato 2.383 km, i francesi 1.035 e noi 65. La prima tratta europea di alta velocità ferroviaria fu aperta 34 anni fa tra Roma e Firenze, nel frattempo in Francia i km di alta velocità sono diventati 1.893, in Spagna 1.552 e in Germania 1.300. Noi siamo fermi a circa 750.
Il segretario dell’Unioncamere, Giuseppe Tripoli, ha stimato che se da qui al 2020 si realizzassero le 40 opere necessarie per migliorare il sistema dei trasporti, l’Italia guadagnerebbe 13,4 miliardi di euro all’anno. Se si facesse il minimo indispensabile, il vantaggio scenderebbe a 5 miliardi, ma se non si farà niente, il Paese arretrerà ancora.
Il gruppo di studio I costi del non fare dell’Agici-Finanza di impresa ha calcolato che da oggi al 2020 l’inerzia costerebbe all’Italia la bellezza di 251 miliardi di euro di cui 24 per l’energia. Solo la Terna ha 1,4 miliardi di euro bloccati su 3,1 di investimenti programmati per il prossimo quinquennio. Proprio nel campo di centrali, reti di trasmissione e rigassificatori il ritardo accumulato è grave. Ecco alcuni esempi.
Slovenia addio
Le regioni della ex Iugoslavia e i Balcani sono una mecca dal punto di vista elettrico. Per due motivi. Il primo è che in quell’area ci sono 10 mila megawatt disponibili a basso costo prodotti da centrali alimentate con la forza dell’acqua, quindi superpulite. Il secondo motivo è che in Croazia, Kosovo, Serbia e Montenegro è stimata la presenza di riserve di lignite per oltre 300 anni. Per qualsiasi paese avere un accesso privilegiato in quell’area sarebbe un bell’investimento, e infatti l’Italia ci ha provato, ma invano.
Tre anni fa la Terna, società mista pubblico-privato, propose al governatore del Friuli-Venezia Giulia, Riccardo Illy, centrosinistra, la costruzione di una linea di un centinaio di chilometri tra Udine e Okroglo in partnership con la slovena Seles. A marzo 2007 Illy rispose no con una lettera di appena otto righe. Quindici mesi dopo la Terna prova a rifarsi viva con il successore, Renzo Tondo, centrodestra, ma bene che vada i lavori partiranno il prossimo decennio.
I picchi siciliani
La Sicilia produce un po’ di più di elettricità (6,5 per cento) di quel che consuma, ma non d’estate, quando l’isola è invasa dai turisti, la corrente non basta e il sistema va in tilt. La Calabria, invece, produce molto più di quanto consuma e quindi sarebbe nelle condizioni ideali per esportare elettricità. Ci vorrebbe una nuova linea e un progetto è stato sottoposto alla valutazione degli enti locali quasi sei anni fa. Nel 2006 con un accordo tra le parti venivano definiti il tracciato e le specifiche tecniche, particolarmente impegnative perché l’elettrodotto passa sotto lo Stretto collegando le località Sorgente e Rizziconi. Costo preventivato 390 milioni di euro. Per due anni l’opera è stata bloccata alla commissione Via; l’esame della pratica è stato ripreso solo a settembre 2008 con un sopralluogo dei tecnici nelle province di Messina e Reggio Calabria. Simile la vicenda del raddoppio della rete elettrica nella parte orientale dell’isola: 310 milioni di investimenti in attesa di autorizzazioni.
Deficit lombardo-veneto
La Lombardia è la regione più energivora d’Italia e ha un deficit elettrico di oltre il 26 per cento; il Piemonte sta addirittura peggio con uno sbilancio del 32. Entrambe hanno bisogno dell’elettricità dei paesi confinanti, soprattutto francese. L’elettrodotto Trino-Lacchiarella dovrebbe contribuire a risolvere i problemi energetici di entrambe le regioni, ma dopo 5 anni di concertazione tra la Terna e gli enti locali il progetto non è ancora approdato alla fase formale della richiesta di autorizzazione.
Quasi identica la situazione per la linea Fusina-Dolo Camin di collegamento tra le città di Venezia e Padova. Qui la concertazione con gli enti locali è durata due anni, ma l’ok definitivo resta lontano. Prima della fine del 2008 la commissione Via dovrebbe effettuare un sopralluogo lungo il tracciato.
Campania sdegnosa
Anche dal punto di vista elettrico la Campania è una delle regioni che sta peggio. Produce appena il 40 per cento dell’elettricità consumata dai suoi abitanti; il resto lo deve importare. In queste condizioni ci sarebbe da aspettarsi dai suoi amministratori un’accoglienza con le fanfare di qualsiasi ragionevole piano per accrescere la disponibilità energetica. Invece non è così. Nel 2003 è stato sottoposto alla regione un progetto per collegare Benevento con Foggia, che ha un surplus di produzione elettrica, ma ben poco è stato fatto.
Dopo una lunga fase di concertazione, nel 2006 la società Terna e gli enti locali interessati trovarono un accordo, ma poi si mise di traverso il ministro Alfonso Pecoraro Scanio, irremovibile sulla linea del no. Invano cercarono di convincerlo spiegandogli che l’elettricità in questione era particolarmente pulita essendo prodotta con il vento nell’area Dauna, zona con alti indici di ventosità e con la più alta concentrazione di pale eoliche d’Italia.
La guerra del delta
La centrale di Porto Tolle sul delta del Po è nata sfortunata. Nel 2001 l’Enel avrebbe voluto riconvertirla da olio (costoso e inquinante) a orimulsion, una miscela bituminosa a buon prezzo che si trova alle foci dell’Orinoco, in Venezuela. Ma mentre le procedure stavano andando avanti spedite per una volta tanto, il presidente Hugo Chávez cancellò le forniture all’Italia a vantaggio esclusivo della Cina. Tutto da rifare.
Nel 2004 fu preparato un nuovo progetto a carbone «pulito» e nei due anni successivi sul futuro della centrale fu ingaggiato un estenuante ping pong tra la Regione Veneto favorevole e la commissione Via contraria. Contro si è messa anche Manuela Fasolato della procura di Rovigo che, dopo aver portato l’Enel in tribunale con l’accusa di inquinamento causato dal vecchio impianto a olio, ha rincarato la dose con una seconda denuncia per danni ambientali. In questo clima, la nuova Via nominata a giugno, a novembre ha chiesto la bellezza di 23 chiarimenti sul progetto, alcuni dei quali doppioni di quelli già presentati dalla vecchia commissione. Così resta al palo un’opera da 2 miliardi di euro e 3 mila posti di lavoro che doveva partire a inizio 2008.
Il gas e i templi
Il rigassificatore che l’Enel vorrebbe realizzare in Sicilia costa 600 milioni di euro e consentirebbe all’Italia di aumentare le importazioni di metano di 8 miliardi di metri cubi all’anno, circa un decimo del consumo nazionale. L’impianto sorgerebbe nell’area portuale di Porto Empedocle, ma a risentirsi è il sindaco del Comune di Agrigento, Marco Zambuto, il quale teme che il rigassificatore deturpi la vista della Valle dei templi, distante ben 6 chilometri. Gravato da una morosità con l’Enel di oltre 1 milione di euro, il sindaco ha sollecitato i legali del comune a verificare se esistano le condizioni per ricorrere al tar. E non si è fatto convincere neppure dalle pacate argomentazioni di uno che di ambiente e antichità se ne intende, il presidente della commissione italiana Unesco, il siciliano Giovanni Puglisi, che in un’intervista ha escluso l’esistenza di rischi per la Valle dei templi. A favore del rigassificatore negli anni passati si era pronunciato perfino l’intransigente ministro Pecoraro Scanio e il suo parere favorevole è stato ribadito di recente da Prestigiacomo e dal responsabile dei Beni culturali, Sandro Bondi.
Lontra o centrale?
Da tre anni a Laino Borgo, un paesino nei boschi del Pollino tra Calabria e Basilicata, è pronta una centrale elettrica da 35 megawatt. È costata 50 milioni di euro e funziona a biomasse, cioè a legna, tecnologia considerata poco o per niente inquinante. Per la verità è più appropriato dire funzionerebbe, perché l’impianto di Laino ha prodotto elettricità un giorno solo, quello della prova d’accensione. Da allora niente e la centrale sta trasformandosi in un’altra piccola cattedrale nel deserto del Sud.
La realizzazione dell’opera fu sollecitata una decina d’anni fa dagli amministratori di Cosenza, sgomenti all’idea di perdere posti di lavoro per la chiusura della vecchia centrale elettrica ormai inadeguata e inquinante. Nel frattempo l’area è stata inserita nel Parco naturale del Pollino e la Regione Calabria ha preteso che l’impianto fosse sottoposto alla Vinca (valutazione incidenza ambientale), una procedura simile, ma non identica alla Via.
La valutazione ha dato risultati positivi, ma non è bastata perché un mese fa anche la confinante Basilicata, forse per non restare indietro, ha preteso la sua Vinca. Intanto l’opposizione ambientalista si batte contro la centrale perché disturberebbe la lontra del vicino fiume Mercure. Ma che queste lontre esistano davvero nessuno è ancora riuscito a provarlo.