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 BOSSI: I DUE PESI DEL SENATUR, di Bruno Vespa Data: 20/12/2008
Appertiene alla sezione: [ Opinione ]
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“O muore lui o muoio io”. Era il novembre del 1994 e Umberto Bossi era asserragliato in un ufficio della Camera dei deputati. Aveva davanti a sé un foglietto con la conta dei deputati e dei senatori che Silvio Berlusconi gli stava insidiando. Vinte le elezioni a marzo, mandati i suoi al governo in aprile, in giugno Bossi aveva già deciso di rompere con il Cavaliere. E a novembre giocava la partita finale. La vinse, con la complicità attiva del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. “Se faccio il ribaltone” gli chiese Bossi “tu sciogli le Camere come ti chiede Berlusconi?”. Scalfaro rispose di no e il Cavaliere andò a casa.
Sono trascorsi 14 anni da allora e sembra un secolo. Bossi trionfò nel 1996 (10 per cento, lottando contro Roma Polo e Roma Ulivo), ma cadde rovinosamente alle elezioni europee del 1999 impugnando la bandiera della secessione. A Natale dello stesso anno si riconciliò con il Cavaliere e insieme vinsero le regionali del 2000 e le politiche del 2001. La malattia di Bossi nel 2003, dopo che Berlusconi ebbe superata la sua, trasformò l’alleanza fra i due in un’amicizia profonda e sincera che dura tuttora.
È vero che in politica non si possono fare previsioni di lunga durata, ma è molto improbabile che le scaramucce di questi giorni possano dividere il Cavaliere e il Senatùr. Walter Veltroni ironizza sul fatto che Bossi sia ormai l’ala moderata del centrodestra. Ma quando si offre come mediatore nella riforma della giustizia, il capo della Lega non rinuncia a proporre l’elezione popolare dei pubblici ministeri, pur sapendo che non sarà presa in alcuna considerazione né a destra né a sinistra.
In realtà Bossi s’infastidisce ogni volta che Berlusconi sembra mettere la sordina al progetto di trasformare l’Italia in una repubblica federale. E vuole soprattutto mandare segnali a sinistra perché la seconda edizione della riforma non faccia la fine della prima, bocciata da un frettoloso referendum. Il presidente del Consiglio sa benissimo che la sola ragione che indusse alla fine del 1999 Bossi a rientrare nel centrodestra è il progetto federalista. Il Senatùr si comportò con grande lealtà nell’intera legislatura 2001-2006 e riuscì a portare a casa la sfortunata “devolution”. Se manterrà anche stavolta lo stesso atteggiamento, avrà uguale soddisfazione: il federalismo è nel programma del centrodestra (ma anche del centrosinistra) e i programmi vanno rispettati. Una trattativa generale sulla giustizia, con il contributo della Lega, sarebbe la benvenuta: il primo punto sul quale Veltroni potrebbe sganciarsi da Antonio Di Pietro, divenuto psicologicamente (e politicamente) più incombente dopo il trionfo in Abruzzo.
Ma se la Lega esige il rispetto del programma, deve rispettarlo a sua volta. Il centrodestra si è impegnato ad abolire le province: Ugo La Malfa lo aveva chiesto in coincidenza con le prime elezioni regionali del 1970 e stiamo ancora aspettando. La Lega si oppone perché ne controlla sei. Sei su 103. Basta per rinunciare a un risparmio di alcuni miliardi all’anno?
Ancora: Linda Lanzillotta, ministro del governo Prodi, non riuscì a privatizzare le aziende municipalizzate per i contrasti nella sua maggioranza. Il centrodestra vorrebbe farlo per risparmiare un mucchio di soldi. La Lega si oppone anche lì per ragioni di bottega.
Bossi è uno degli uomini politici dalla visione più lunga. Dia il buon esempio e si riuscirà davvero a trasformare l’Italia in uno stato moderno. Anche i patti scomodi vanno rispettati.

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