“Oggi la Rivoluzione è più forte che mai!”. A mezzo secolo esatto di distanza da quel primo gennaio 1959 in cui le colonne dei barbudos entrarono all’Avana, Raúl Castro ha potuto celebrare il traguardo di un regime che in tutto questo periodo è sopravvissuto a 10 presidenti Usa; alla guerriglia dell’Escambray; al tentativo di invasione della Baia dei Porci; al blocco navale della crisi dei missili; all’embargo; ai continui colpi di spillo di oppositori che per molto tempo operarono con le armi e anche a volte con tecniche terroristiche; al collasso dell’Unione Sovietica; e adesso anche al ritiro dello stesso Fidel, che per la prima volta era presente alle celebrazioni solo attraverso i filmati. In questo momento, il governo cubano affronta una situazione internazionale favorevole come non mai. Nella maggior parte dell’America Latina sono oggi al potere governi che si considerano suoi amici, pur differenziandosi tutti chi più e chi meno dal suo modello istituzionale. All’ultimo megavertice latino-americano in Brasile la delegazione cubana è stata omaggiata con ovazioni. Le sanzioni europee sono state revocate. La Russia e altre potenze globali sono tornate a corteggiare Cuba. La crisi globale sembra riportare d’attualità la storica contrapposizione di Fidel al modello capitalista. A Miami il 55% degli esuli cubani si dicono ormai favorevoli alla revoca dell’ambargo commerciale. Con Barack Obama sta per insediarsi alla Casa Bianca un presidente da cui in molti si aspettano evoluzioni significative nel senso di una normalizzazione dei rapporti.
Insomma, i limiti della leadership statunitense da un lato, il ritorno del multipolarismo dall’altro, stanno dando al regime castrista l’ennesima opportunità. Eppure, non c’è verso. Il sistema castrista non funziona, non c’è verso di farlo funzionare, e un po’ per gli ultimi uragani che hanno devastato l’isola, un po’ per il contraccolpo della stessa crisi del capitalismo, il 2008 è stato l’anno economicamente peggiore per Cuba dai tempi della crisi del comunismo del 1989-92. Lo stesso Raúl nel celebrare il mezzo secolo davanti a 3000 persone ha avvertito che comunque la situazione economica non migliorerà. “Commemoriamo questo mezzo secolo di vittoria ma riflettendo sul futuro, sui prossimi cinquant’anni”, ha detto, annunciando un futuro “penurie e difficoltà”: “non sto dicendolo per mettere paura a nessuno, ma semplicemente perché è la realtà”. Un’ora di discorso, due di commemorazione a base di musica, balli e filmati, ma di fronte a un pubblico di invitati rigorosamente selezionati, dal momento che ai cittadini comuni era stato proibito l’ingresso alle piazze principali. Una marcata differenza rispetto alle kermesse di massa del passato, che dà la misura di quanto la situazione sia vista come incerta dalle stesse autorità. Un motivo di tensione sono le retate con cui la polizia nelle ultime settimane ha infierito sul mercato nero: dove i 5 dollari di un chilo d’uva possono corrispondere a un quarto del salario medio mensile, ma dove d’altra parte la maggior parte della gente trova l’indispensabile per sopravvivere. Un altro è la legge sulla Memoria Storica approvata in Spagna dal governo Zapatero, e in base alla quale tutti gli esuli repubblicani scappati dopo la vittoria di Franco e i loro discendenti hanno il diritto di recuperare la cittadinanza spagnola. Risultato: file interminabili davanti ai consolati stanno preparando un esodo di 200-300.000 persone, tanto più significativo proprio perché rappresentato in gran parte da figli e nipoti di “rossi” a suo tempo entusiasti della Rivoluzione di Fidel. Ma anche le massicce retate di dissidenti in occasione dell’ultima giornata dei diritti umani avevano indicato il nervosismo del regime.
“Oggi la rivoluzione è più forte che mai e mai ha ceduto un millimetro nei suoi principi neanche nei momenti più difficili”, ha detto Raúl. Voleva essere un richiamo di orgoglio, ma a veder bene questa rivendicazione di aver attraversato cinquant’anni senza mai essersi voluti adattare di un millimetro ai problemi di un mondo che cambiava potrebbe essere considerata la più disarmante delle confessioni di fallimento. E non a caso, tutte le pur timide riforme annunciate da Raúl in questi 10 mesi sono rimaste in mezzo al guado, per essere infine rinviate sine die proprio con la scusa della crisi. Le stesse celebrazioni per il cinquantenario della Rivoluzione sono state d’altronde gestite in regime di austerity anche in base al Piano economico e sociale che l’Assemblea Nazionale ha appena avviato: aumento delle imposte; diminuzione dei servizi gratuiti; dilazione di cinque anni dell’età pensionabile. La disoccupazione secondo le statistiche ufficiali è già all’1,6%: cifra mostruosa per un Paese a economia formalmente di socialismo reale. E il ministro dell’Economia José Luis Rodríguez ha pure denunciato che ci sarebbero almeno 189.000 persone in età lavorativa che né studiano e né lavorano ma “godono di benefici parassitari”, e che gli investimenti rappresentano solo il 14% del Pil, che al 78% se ne va in consumi: peraltro miserabili.
Qualche osservatore vede l’origine dello stallo in un progressivo ritorno al potere di Fidel, che avrebbe quindi bloccato le velleità del fratello. Un segnale ne sarebbe stato ad esempio lo scorso 13 novembre, quando il ministro dell’Investimento Straniero e della Collaborazione Economica Marta Lomas è stata destituita in malo modo per una dichiarazione di “benvenuto” all’elezione di Barack Obama senza aspettare la presa di posizione ufficiale dei fratelli Castro. In effetti, dal 24 febbraio scorso Fidel ha passato a Raúl gli incarichi di Presidente e Comandante delle Forze Armate Rivoluzionarie. Però è sempre lui il segretario del Partito Comunista. E, si ricorderà, nell’Unione Sovietica e in quegli altri Paesi dell’Est europeo pre-caduta del Muro di Berlino che la Cuba castrista ha preso a proprio modello costituzionale, era il segretario del Partito Comunista il vero leader, quando le cariche al vertice non coincidevano. Leonid Breznev, e non il primo ministro Aleksej Kosygin, e meno che mai il Presidente del Praesidium del Sovier Supremo Nikolaj Podgornyj. Con lo stesso voto in cui poi il Parlamento dell’Avana investiva formalmente Raúl della successione, gli dava però anche l’approvazione per poter consultare sempre il fratellone in tutte “le decisioni di speciale trascendenza” per il futuro dell’isola: ovvero, quelle relative a difesa, politica estera e economia nazionale. E di questo diritto di consultazione Fidel ne ha approfittato per continuare a comandare a bacchetta. Il primo segnale importante lo si ebbe già il 23 aprile, quando saltò il ministro dell’Educazione Luis Ignacio Gómez e lo stesso Fidel scrisse un articolo per spiegare che il reprobo aveva perso la sua “coscienza rivoluzionaria” e abusava di viaggi all’estero: un imprimatur buono a chiarire che, malattia o non malattia, non si muove a Cuba foglia che Fidel non voglia. E una sua forte ripresa di protagonista c’è stata poi con gli uragani dell’estate, proprio mentre Raúl spariva invece dalla circolazione: ben quattro “riflessioni” sui giornali e una lettera alla tv su come affrontare l’emergenza apparsi tra 31 agosto e 16 settembre, seguite poi da un suo deciso intervento a rifiutare l’offerta del governo di Washington di aiuti ai sinistrati per 5-6,3 milioni di dollari, dopo che da Raúl erano arrivati segnali incoraggianti.
Da ultimo, il ritorno di Fidel è stato confermato anche dagli ospiti stranieri. II presidente brasiliano Lula ad esempio è con Fidel che ha parlato, e all’attore Sean Penn venuto a intervistarlo Raúl ha detto: “Fidel mi ha appena chiamato e mi chiamerà di nuovo dopo che abbiamo finito. Lui vuole sapere ogni cosa della quale parleremo”. Gli stessi visitatori che testimoniano della sua lucidità dicono però che Fidel è magro e debole come non mai. E infatti alle celebrazioni per il mezzo secolo della Rivoluzione non è riuscito ad andare. Insomma, né al potere, né senza di esso: in una transizione infinita che ricorda veramente il Patriarca di Gabriel García Márquez.