Sono passati quasi due mesi da quando Rinuccia Giraudo e Maria Teresa Olivero sono state rapite. Le hanno catturate la notte tra il 9 e il 10 novembre, a Elwak, un villaggio nel Kenya settentrionale. Da allora non se ne è saputo più nulla. Dicono che le abbiano trasferite a Baidoa, in Somalia, poi a Mogadiscio, ma sono voci, indiscrezioni senza conferma. Sarebbero nelle mani degli shabab, i giovani talebani somali, guerriglieri che vorrebbero imporre la sharia anche nel paese dell’Africa orientale. In realtà delle due suore, 67 e 60 anni, entrambe di Cuneo, non si sa più nulla. Inghiottite dal terrore, sequestrate da una banda di ribelli che in nome della guerra santa combattono e uccidono.
Se non fosse per le parole di Benedetto XVI, che le ha ricordate nel giorno di Natale, le due religiose sarebbero state inghiottite anche dalla stampa, scordate come una delle tante notizie che passano e finiscono nell’archivio della memoria. Dimenticate: questo è da due mesi il destino delle due missionarie in mano ai fondamentalisti islamici. Per loro non ci sono stati appelli, veglie di speranza, articoli sui giornali o striscioni appesi ai davanzali delle sedi municipali. Per loro nessuna mobilitazione.
Quando ho chiesto ad alcuni colleghi la ragione di tanta indifferenza, la risposta è stata: sono due missionarie. A differenza delle due Simone o di Giuliana Sgrena, le due sessantenni in mano ai talebani somali non sono né iscritte all’Arci né giornaliste. Non militano a sinistra, forse non hanno mai sventolato la bandiera della pace e, addirittura, è perfino possibile che non abbiano mai marciato contro la guerra.
Rinuccia Giraudo e Maria Teresa Olivero negli ultimi 25 anni hanno fatto altro, occupandosi dei poveri, dei bambini, di un angolo d’Africa nel nord del Kenya. Semplicemente, sono due suore. Due donne di Dio, che hanno donato la loro vita a chi soffre. Sono volontarie, sì, ma non di quelle che piacciono tanto alla grande stampa. Non hanno abbandonato per sei mesi o un anno le loro abitudini per andare là dove c’è la guerra a dire che sono contro questo o quello, contro George W. Bush o Silvio Berlusconi, e dunque sono amiche.
Le due suore hanno solo rinunciato alla loro vita, o, meglio, hanno deciso di vivere la loro vita in mezzo ai più deboli, dedicandosi a loro, in nome di Dio e della loro fede. Ma questa non è una buona ragione per ignorarle. Né è un buon motivo per condannarle al martirio. Due missionarie non sono votate al martirio, come con sufficienza mi ha risposto qualche collega. Due suore non sono per definizione obbligate a rischiare la loro vita.
Per altri, andati all’estero in nome della solidarietà e della fratellanza, o, molto più banalmente, per fare un bel servizio con cui stupire i colleghi del giornale, si è scelto di pagare un riscatto. Per altri si è scelto di trattare con i rapitori, cioè con terroristi pronti ad armarsi ancora di più grazie ai soldi del riscatto. Per tutti, anche per quelli che non erano italiani e che nessuno conosceva, s’è formato un movimento d’opinione che tenesse viva l’attenzione e che ne sollecitasse la liberazione. Per tutti c’è stata un po’ di umana pietà. Qualcuno allora mi deve spiegare perché per due suore nessuno finora ha mosso un dito.