Michela Nacci
Nella collana “Stile Libero” di Einaudi (una casa editrice dentro la casa editrice, con regole, stile, direzione autonomi dal resto e ben riconoscibili) esce la coppia videocassetta + libro dedicata a Totò. Cura la videocassetta Lello Arena, cura il libro Valentina Pattavina. Che cosa abbia rappresentato il fenomeno Totò nella storia della comicità è impossibile dire in due parole, ma tutti coloro che conoscono Totò sanno che ha rappresentato molto: un personaggio unico, dalla mimica formidabile, dalla velocità di un improvvisatore di genio, una caricatura dei vizi e delle qualità italiche. Di più: attore misconosciuto da vivo, considerato di serie B da critici e intellettuali, buono per una risata ma qualunquista nel fondo. Finché giunge la rivalutazione postuma, le letture che ne riscoprono il talento vero e le interpretazioni memorabili, gli osanna della critica più colta e spesso di sinistra.
Nei film di Totò è spesso, si potrebbe dire sempre, presente il tema dell’identità italiana. Della sua interpretazione di tale identità si sono dati giudizi diversi, opposti: per qualcuno Totò è l’eterno qualunquista che abita la penisola, per altri ha compreso alcuni tratti essenziali della nostra storia. Sempre, l’identità italiana è presentata come unitaria rispetto a quella di altri paesi: l’italiano è l’essere scaltro, scafato, ironico che riesce a prendere in giro lo straniero dal punto di vista del “parla come magni”. E’ presente anche il tema del Nord e del Sud dell’Italia: in questo caso Totò presenta vari tipi di italiano, spezzando l’unitarietà del carattere nazionale e dividendolo a sua volta in tipi regionali, locali, campanilisti. In questo caso è l’identità nazionale a essere presa di mira dall’ironia, dallo sberleffo di Totò: è resa macchietta, stereotipo, tic, battuta.
L’Italia di Totò è prima di tutto ed essenzialmente divisa in due: il Sud (e il Sud per eccellenza è Napoli, la Sicilia non esiste) e il Nord (rappresentato da Milano, ma anche da curiose località non centrali nella geografia nazionale eppure significative, si pensi a Cuneo: “Sono uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”). Il Nord è già estero: Totò e Peppino si vestono con cappotto e colbacco come se dovessero andare al Circolo polare artico quando si recano in treno a Milano. Non solo: nella scena della richiesta di informazioni, si rivolgono al vigile urbano in francese (ma pensano di parlare tedesco), e si stupiscono che questi parli italiano.
Ma la sensazione di incontrare lo straniero non emerge solo nella discesa dal treno a Milano: anche nella scena dell’onorevole Trombetta in “Totò a colori” si incontrano non tanto due professioni o classi o ceti diversi: si incontrano due tipi che non fanno parte dello stesso Paese. L’onorevole parla un italiano perfetto, Totò parla come sempre italiano ma con un forte accento napoletano. L’onorevole è razionale, aderente alla realtà, Totò è irrazionale (getta le valigie dalla finestra invece di metterle sul portavaligie, ride del Parlamento, della sorella che è sposata con un certo signor Bocca – Trombetta in Bocca, e così via). L’onorevole è l’Italia legale – come si sarebbe detto in altri tempi –, Totò è l’Italia reale. L’onorevole è la politica, Totò l’antipolitica, come si direbbe ora. L’onorevole è l’Italia ufficiale, parlamentare, della Costituzione; Totò è l’Italia del popolo, del buon senso, dello sberleffo.
Così si delineano – sempre – due Italie: quella formale, di Roma, delle istituzioni, della legalità, del perbenismo, e quella reale, popolare (aristocratica o popolare, e – prima di tutto nello stesso Totò, principe De Curtis – aristocratica e popolare insieme), irridente e sgangherata. La seconda (quella popolare) non si riconosce nella prima, considera la prima come un corpo estraneo, artificiale, fittizio, all’interno del Paese. La prima (quella ufficiale) non conosce la seconda. E dunque abbiamo che se l’Italia legale non conosce quella reale, dall’altra parte l’Italia reale non riconosce quella legale. Le due Italie parlano fra loro come due nazioni straniere che non comprendono l’una la lingua dell’altra. Sono due nazioni che vivono all’interno dello stesso Paese ignorandosi, irridendosi, disconoscendosi.
La stessa situazione si presenta nella scena di Milano: qui si tratta del Sud rispetto al Nord. Sono due nazioni diverse, non fanno parte dello stesso paese. Totò e Peppino si portano dietro cinque chili di pasta e le galline, il cibo di casa (il pane e i salami) per sopravvivere in terra straniera. Non parlano la stessa lingua del vigile urbano. La situazione si ripete con le due Italie di “Totò guardie e ladri”: da una parte le guardie, dall’altra parte i ladri, poveracci tutti e due ma in lotta eterna l’uno contro l’altro. Ancora una volta, l’Italia di chi è irregolare, si arrangia e infrange la legge per vivere, ironizza sull’Italia legale e le fa uno sberleffo, la invita a darsi alla macchia, ad abbandonare il legalismo e ad arrangiarsi anche lei, o comunque a chiudere un occhio.
E infine bisogna ricordare le due Italie di “Siamo uomini o caporali?” L’Italia è profondamente, radicalmente divisa in due da questa distinzione: uomini da una parte, caporali dall’altra, che si ripetono eternamente nella storia del Paese.
Diversa cosa quando Totò incontra lo straniero: qui le due Italie si riuniscono in una sola, ed emerge una immagina unitaria del carattere nazionale: l’italianità è incarnata da Totò, e si contrappone allo spirito nazionale americano, o francese, o tedesco, o spagnolo, o nord-africano. Ad esempio nella scena della vendita di Fontana di Trevi, dove Totò imbroglia l’americano facendogli credere di essere il proprietario della fontana e di aver diritto a tutte le monetine che vengono gettate nella sua acqua dai turisti. Qui l'americano è il credulone ignorante e ingenuo pronto a essere turlupinato; è spinto dal desiderio di guadagno. L’italiano invece è il furbo, spiantato, che vive di espedienti, e che si diverte alle spalle del prossimo.
Quello che manca nei film di Totò è il mondo delle classi sociali reali, normali, esistenti in quel momento. O meglio: nel mondo di Totò le classi sociali sono ridotte a due. Sono Miseria e Nobiltà: da una parte gli aristocratici, i rentiers, i “nobbili”, e dall’altra gli spiantati, il popolo, i nullatenenti. Mancano gli operai, i contadini, o piuttosto sono lo sfondo del racconto, uno sfondo che non assurge mai al primo piano. Fanno la loro comparsa i borghesi (la famiglia di “Totò diabolicus”), i nobili (“Totò a Capri” con molti altri esempi), i sottoproletari (“Miseria e nobiltà”), gli spiantati in innumerevoli casi. Quando Pasolini lo chiama a interpretare “Uccellacci e uccellini”, gli fa infatti interpretare questo ruolo: quello di chi non possiede niente, dell’emarginato e dunque dell’innocente, quello di chi sta fuori dalle classi sociali produttive. Ma i veri assenti sono i proletari, gli operai.
Quello che presenta Totò è un mondo ancien régime, pre-industriale, fatto di nobili, rentiers, fainéants, e di miserabili. In mezzo la gente che – come lui – si arrangia per vivere. Gli impiegati invece ci sono: in “Totò cerca casa” è lo stesso Totò che impersona l’impiegato preposto all’assegnazione delle case. Impiegato ignorante e caprone, che capisce fischi per fiaschi e dà informazioni sbagliate, fino alla scena famosa dell’apposizione dei timbri dove lo sberleffo si dirige sulla iperburocrazia e la stravolge. Sono presenti in abbondanza i carabinieri, visti come i veri nemici dei poveretti, allo stesso titolo delle altre forze dell’ordine. Sono presenti i negozianti, presentati come avidi e avari custodi dei vantaggi della loro posizione. Il mondo delle professioni liberali compare con il classico medico e avvocato, con il notaio: cioè con le professioni tradizionali specie al Sud.
Aristocratici e popolani hanno una caratteristica importante: fanno parte dello stesso mondo, si intendono, parlano la stessa lingua. E’ la lingua di una contrapposizione elementare ed eterna, di una intesa necessaria: di chi comanda e di chi ubbidisce, di chi sta in alto e di chi sta in basso, separati e distanti ma anche complementari l’uno all’altro. Non avrebbe senso infatti essere aristocratici se non vi fosse su chi esercitare la propria superiorità, e reciprocamente non si potrebbe misurare la propria nullità se non la sovrastasse l’incomparabile superiorità castale dei nobili, dei ben nati.
Con chi sia gli aristocratici sia il popolo non si intendono assolutamente invece è con i rappresentanti dello Stato, di un’Italia lontana e quasi di carta: l’Italia delle leggi, del Parlamento, dell’Unità, di Roma, delle professioni e del lavoro. Fra questa Italia e quella di “Miseria e nobiltà” passa una non conoscenza, un non riconoscimento, una estraneità totale: non fanno parte dello stesso mondo, non lo faranno mai perché non parlano la stessa lingua e non hanno alcun interesse comune, alcun valore condiviso. La vera capitale d’Italia per Totò è Napoli, non Roma.
E’ proprio perché Totò presenta questo mondo inattuale, pre-industriale, che gli è possibile portare uno sguardo irridente e stravolto sulla realtà italiana del periodo, quella che esisteva davvero, e dire alcune verità ridendo: la lontananza di Roma, la sfiducia dell’italiano che si arrangia per vivere nella legalità, lo sberleffo all’etica del lavoro e del risparmio, la fede nell’esistenza di due Italie diverse e inconciliabili, la credenza nella maggiore, imparagonabile saggezza della Italia arretrata su quella sviluppata, l’idea che in mezzo a tutti i cambiamenti, i progressi, le conquiste della modernità, niente di tutto questo sarebbe penetrato nell’eterno Sud italiano, luogo dello spirito, dell’arte d’arrangiarsi e dell’ironia mordace. Idea che niente avrebbe mai potuto modificare l’eterna lotta e l’eterna complicità fra ricchi e poveri, fra nobili e disgraziati, che le loro due posizioni erano fissate una volta per tutte, immodificabili.
Da questa posizione fuori della storia e solo da questa è possibile guardare all’Italia che crede alla modernità e che corre per inseguirla con il distacco e l’ironia e mettere in luce la sua inanità, il suo essere ridicola, il suo svolgersi alla superficie delle cose. Sotto, nelle profondità della storia, la stessa eterna riproposizione di forti e deboli, David e Golia, lo stesso eterno gioco a fregarsi, a mascherarsi l’uno con le vesti dell’altro, a prendersi in giro, a non prendersi sul serio. Dove quella del Signore è una categoria dello spirito nella quale si nasce e alla quale non si assurge, una condizione data nella società senza mobilità che Totò presenta e incarna. Perché, con le sue parole, “Signori si nasce, e io – modestamente – lo nacqui”.
C’era bisogno di riproporre un DVD con 97 minuti tratti da film noti e meno noti di Totò? Sarà che a casa mia questo culto non ha mai conosciuto periodi di ribasso, ma avevo l’impressione che le sue pellicole fossero rintracciabili con facilità. C’era bisogno, per comporre questa silloge, di ritagliare dai film le scene in cui Totò recita gag più o meno note, isolandole dal contesto e dal racconto? Questa è la parte più discutibile dell’operazione. Ognuno è libero di privilegiare il Totò che preferisce: quello della dettatura della lettera fra salami appesi e galline starnazzanti, quello magico di “San Giovanni decollato”, quello della lezione di apertura della cassaforte presente ne “I soliti ignoti”. Ma perché spezzettare una scena ben riuscita (e famosa nella sua interezza) in tanti frammenti intercalati ad altri?
Perché utilizzare film poco o per niente riusciti come “Totò sexy” oppure “Totò di notte n.1”? Sembra che a prevalere in questa scelta sia la logica della barzelletta più che quella della scena comica, della gag veloce più che dell’opera, del mordi e fuggi più che della degustazione. E’ difficile anche oggi per alcuni convincersi che Totò sia stato un grande, autentico personaggio, un autore di genio, un comico formidabile, un attore capace di reggere un intero film. In questo modo, vengono privilegiati momenti comici (irresistibili quelli tratti da “Il monaco di Monza”) e trascurati completamente film davvero belli come “Guardie e ladri”, “Totò e Carolina”, “Siamo uomini o caporali?”, “Totò e le donne”, “Totò e i re di Roma”. Tra i film dai quali non è stato tratto nessuno sketch si segnala ad esempio “Totò turco napoletano”. Anche se si voleva privilegiare il Totò protagonista di scenette comiche fulminanti, ne mancano di celeberrime ed essenziali (niente da “Totò diabolicus”!). Imbarazzanti gli intervalli tra uno sketch e l’altro: infinitamente meglio sarebbe stato un flusso continuo e senza stacchi.
L’operazione non è riuscita per troppi aspetti negativi; si salva per la presenza di alcuni pezzi geniali specie da “Il monaco di Monza” e “Totò truffa”. Molto migliore il “Totò story” del 1968, con una scelta minore ma che salvava l’integralità delle scene: in 90 minuti si vedevano 9 sketch. Qui in 97 minuti se ne vedono ben 94! Detto tutto questo, dal libro (utile e ben curato) e dal DVD si esce con il desiderio di vedere i film per intero, anche se li si è già visti molte volte: alla fine, è l’unico risultato che conta.