di Raffaele Iannuzzi
Il cattolicesimo sociale ha, oggi, di fronte a sé molte opportunità da cogliere. Paradossalmente, si dirà, eppure è così. Perché c’è la crisi e perché la Chiesa non è la cittadella assediata descritta recentemente da Citati sul giornale dei laicisti ignoranti e arroganti, La Repubblica. C’è la crisi e, aggiungo, questa particolare crisi, questa fattispecie di crisi, la quale rimanda oggettivamente allo sgretolamento del tessuto antropologico e culturale del capitalismo occidentale, come annota acutamente Gotti Tedeschi nella Prefazione a questo notevole scritto di taglio epistemologico di cui sto ragionando. Parliamo degli “Appunti di dottrina sociale della Chiesa. I cantieri della pastorale sociale” di Paolo Asolan. La crisi è, da questo punto di vista, un kairòs, un momento topico e “debito”, opportuno, necessario, un tempo capace di riaprire contesti e linguaggi.
La modernità nasce come crisi, non è casuale che la logica del moderno, la dialettica hegelo-marxiana sia “inquietudine del negativo”, ha scritto Nancy, motore logico-storico di cambiamento attraverso rotture e scissioni. Ma questa crisi che attanaglia tutti è diversa, si affaccia sul crinale del capolinea di due flussi storici, la fine del Moderno come dialettica inquieta e, in ultima istanza, riconciliatrice, e la fine dell’equilibrio ideologico neo-classico, secondo le cui misure algoritmiche il “mercato” diventa l’ipostasi teologica da “inverare” in ogni momento storico, qualunque sia l’esito di quest’operazione.
In realtà, il capitalismo finanziario – la quintessenza del capitalismo che si riproduce attraverso il capitale con una "variabile T" accelerata e, secondo alcuni, un po’ come i frattali – procede per crisi e squilibri. Da Schumpeter a Kaldor per arrivare a Minsky, così stanno le cose. L’aver pre-giudizialmente espunto questo dato della realtà sostituendo ad esso l’ideologia del “come se”, ha prodotto guasti non solo finanziari, ma anche e soprattutto sistemici. Dunque, strutturali.
Quando si parla di struttura, si arriva sempre all’uomo e alla sua cultura, come ricerca dei significati e del senso del lavoro. La sfida che il cattolicesimo sociale deve affrontare, a viso aperto, e con coraggio, è proprio legata alla ridefinizione di un assetto strutturale fondata su un’antropologia non immanentistica – eccellente spunto della "Centesimus annus" – e sul valore del lavoro come cultura delle relazioni e significato della vita personale ed associata. Questi obiettivi sono limpidamente presenti ai due autori di questo lavoro, destinato a rimanere nel vuoto del moralismo ideologico clericale, tutto anti-mercato, e delle ideologie di risulta degli ultimi “liberatori”, oggi sostituiti, a ben guardare, dal più cinico manipolo dei cosiddetti “cattolici adulti”.
La dottrina sociale della chiesa (da ora: dsc), incapsulata rozzamente e sistematicamente negli schemi ideologici, non è finora riuscita a trascinare la cultura cattolica fuori dal pantano ideologico post-conciliare. Questo è il dato dal quale partire. Ideologia tra le ideologie, il contenuto reale della dsc e la sua specifica epistemologia di ricerca, convergente con la dinamica antropologica d’insieme delle scelte personali e sociali, è andata a riempire gli scaffali vuoti di idee e progetti dei “cristiani per il socialismo”, teologi della liberazione senza patente sudamericana: un disastro. Ma, sia chiaro, ciò non è accaduto perché la dsc sia particolarmente sensibile a queste operazioni, in quanto, per natura sua, impastata di feticismo ideologico, tutt’altro.
La storia del Novecento si è servita della dsc ad uso e consumo dei movimenti sociali di massa che via via attecchivano in Europa. La Chiesa ha visto e spesso non ha detto alcunché, è arrivato il Vaticano II e la modernità, sfinita già “dictum” di celebri guru come Foucault, Althusser e Lacan, è stata “salvata” dalla Chiesa “dialogante”, ignara di dialogare con un morto. E non le senso del celebre numero – “morto che parla” –, non si trattava di eutanasia collettiva, laddove la Chiesa o parti importanti della sua gerarchia credevano fosse il residuo laico del “Dio vivente”.
Tutte le ideologie, allora, abiurate dagli intellettuali organici di ieri, sono ripiombate di schianto, persistendo fino ad oggi, nel corpo della chiesa. Di qui lo smantellamento di qualsiasi profilo sociale, pubblico e culturale del cattolicesimo. Intendo “cattolicesimo”, non generico “cristianesimo” e, per la definizione della prima realtà, che tanto ci sta a cuore, rimando al formidabile e insuperato saggio di de Lubac, "Catholicisme". E’ un merito che Felice ed Asolan abbiano variamente citato Del Noce, perché questo importante filosofo, ancora da scoprire in seno alla Chiesa dei “cattolici adulti”, ha trasmesso alla mens cattolica un senso proprio da non trascurare: la modernità non è un dato originario e intrascendibile, ma è, prima di tutto, un problema. Qualcosa che ci sta di fronte e ci sfida, al quale dobbiamo rispondere, senza esitazioni intellettuali ed etico-politiche.
Il saggio in questione è, dunque, delnociano, almeno per larga parte del suo impianto, dedicato alla disamina dell’antropologia di base della dsc, e poi torna Del Noce nelle sedi opportune, in relazione alla filosofia del lavoro ed alla realtà polacca, idealtipo di un mutamento strutturale e culturale prodotto dal cattolicesimo. La finezza di questo incontro con Del Noce rende alquanto robusto l’impianto categoriale e storico-culturale del testo. E fa sì che la gigantesca produzione di encicliche “sociali” di Giovanni Paolo II si paragoni con un terminale non scontato, filosofico ancorché immanente alla cultura della Chiesa.
Ne scaturisce il senso precipuo della “buona battaglia” combattuta – sul versante giusto, quello antropologico – da questo grande Papa. Felice e Asolan si imbarcano con il Papa alla ricerca del senso perduto della dsc, alla fine scopriranno che, trattando questo tema, devono ritematizzare adeguatamente l’antropologia, come già detto e ripetuto, l’etica ontologica della scuola polacca, il socialismo come errore antropologico, sulla base della Centesimus annus, le varie teorie dell’impresa, le ragioni della nascita del capitalismo in Occidente e non altrove… perché, quando si afferra il bandolo della matassa, poi si srotola tutta la matassa e gli esiti impegnano, non poco, la teoria, ma assicurano saldezza alla pratica.
Basta scorrere le pagine di questo saggio per accorgersi di un mondo culturale ricchissimo, pieno di perle preziose, che attende, da tempo, di essere riscoperto. Ci vuole soltanto la semplicità del cuore di chi indaga le ragioni della fede senza venir meno alla dimensione missionaria, inclusa nella dsc e, più in generale, nella Chiesa come tale. Ecco, quindi, che, su questa base, anch’essa ben fondata epistemologicamente, ritroviamo la missione, in un senso che mi ha richiamato ancora una volta de Lubac. Certo è che abbiamo di fronte a noi un modello epistemologico aperto e inclusivo – dsc come antropologia e cultura/pastorale sociale e missione –, dunque un linguaggio.
Da tempo non c’era un linguaggio aperto e inclusivo, nel senso giusto del termine, cioè in punta di dottrina. Solo un linguaggio cogente e ben strutturato è in grado di produrre un pensiero, evitando quel “pensiero senza concetto”, per dirla con un recente saggio di Sapelli, figlio di una fin troppo maturata assenza di “fatica del concetto”.
Fatica, invece, i nostri due autori ne hanno fatta tanta, con pazienza e dedizione al vero, proprio perché consapevoli che, in questa materia, si oscilla sempre “tra un moralismo ottuso e un razionalismo dogmatico”. Manca il cattolico e geniale et-et. Dopo il dogma della Santissima Trinità, viene l’attitudine all’equilibrio, dinamico come ogni equilibrio che si rispetti, soprattutto fecondo, aperto, geniale. Perduto questo, l’equilibrio, è finita l’età della “fatica del concetto” e il pensiero dotato di concetto. O pietismo devoto o ideologismo extra-ecclesiale. Un bazar tardo novecentesco.
Invece, “La dsc non va (…) intesa come mera illustrazione di principi astratti, o ricettario per il “buon cittadino”, ma come studio di tali principi, elaborazione di modelli di implementazione possibili e prova dei medesimi” (p.29). E’ un buon inizio, anche per attraversare – laicamente, in ciò, senza “religioni intellettuali” (Pareto) – la “glonfusione”, registratata da Gotti Tedeschi nella prefazione.
Questo inizio non sfugga, dunque, al lettore avvertito, da qualunque parte provenga, perché “veritas, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est”; ma è bene essere chiari: l’implementazione della dsc gioca un ruolo decisivo, oggi più che mai. Se il Verbo si è fatto è carne (giusto?), allora tutto deve essere veri-ficato, fatto vero nella storia, a partire dal presente. Infine, realizzato. Attenzione: il vero spiritualista, come spiegano magistralmente le Lettere di Berlicche, è il diavolo. E al diavolo non piace neanche un po’ la dsc. Garantito. Garantito “al limone”, come diceva quel tale nel celebre film che ha fatto storia.