di Filippo Facci
Il presunto collega Marco Travaglio diffama sapendo di diffamare, versione giornalistica del mentire sapendo di mentire: è, questo, il passaggio cruciale del provvedimento con cui il giudice del Tribunale di Roma Roberta Di Gioia, il 15 ottobre scorso, ha motivato la condanna di Travaglio a 8 mesi di reclusione e 100 euro di multa per diffamazione ai danni di Cesare Previti. A quest'ultimo andrà anche un risarcimento di 20mila euro più 2.500 di spese processuali, pecunia che sarà probabilmente sborsata dal settimanale l'Espresso che il 3 ottobre 2002 ospitò l'articolo ritenuto diffamatorio; la direttrice Daniela Hamaui è stata perciò condannata a 5 mesi e 75 euro di multa, pena che rapportata al di lei «omesso controllo» pare invero eccessiva. Ma siamo solo al primo grado, e la pena in ogni caso è stata sospesa per entrambi: è coperta dall'indulto.
«Ricorrerò in Appello» aveva annunciato Travaglio dopo la condanna: questo dopo che in più occasioni si era detto favorevole all'abolizione dell'Appello. «Vedremo le motivazioni della sentenza» aveva poi commentato il presunto collega: ora che le ha viste, però, si è ben guardato dal renderle note, e a leggerle si capisce anche perché.
Ma prima ricostruiamo la diffamazione. L'articolo galeotto, del 2002, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia, un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Era un classico copia&incolla dove un mafioso «pentito» raccontava che Forza Italia era stata regista di varie stragi e aveva fatto un patto elettorale con Cosa nostra. Un pezzo a tesi discretamente ignobile, ma non ancora diffamatorio: la disonestà intellettuale di Travaglio doveva ancora dare il meglio. Il racconto di questo pentito, Luigi Ilardo, finì in un rapporto redatto nel 1993: ma poi, tre anni dopo, il pentito venne freddato da due killer talché «quello che avrebbe potuto diventare un altro Buscetta non parlerà più. Una fuga di notizie, quasi certamente di provenienza “istituzionale”, ha avvertito Cosa nostra del pericolo incombente». Notare il «quasi certamente», ma proseguiamo: è solo spazzatura, la diffamazione non è neppure qui.
Chi aveva raccolto le confidenze del pentito assassinato? Era stato il colonnello dei carabinieri Michele Riccio: il quale, nel 2001, venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell'Utri e al tenente Carmelo Canale, quest'ultimi imputati per concorso esterno in associazione mafiosa. E che cosa successe in quello studio? Cose losche, secondo il colonnello Riccio: aggiustamento di deposizioni, manovre per scagionare Dell'Utri, cose del genere.
Sicché Travaglio, nel suo articolo, citava un verbale reso proprio da Riccio nel 2001 e che viene fatto concludere così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». Fine dell'articolo: Travaglio chiude attorno a questa suggestione e lascia che su Previti si allunghino ombre di traffici giudiziari e patti con Cosa nostra e regie superiori.
Peccato che il verbale di Riccio, in realtà, proseguisse con quest'altre parole che Travaglio ha omesso: «Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell'Utri».
Lo spiega bene il magistrato Roberta Di Gioia: «La circostanza relativa alla presenza dell’onorevole Previti in un contesto di affari illeciti e di pressioni indebite, è stata inserita nel corpo dell’articolo mediante un accostamento indubbiamente insinuante, con l’effetto di gettare una pesante ombra sul ruolo avuto da Previti in quella specifica situazione e con chiara allusione ad un suo coinvolgimento nella vicenda, acquisendo perciò una evidente connotazione diffamatoria». Evidente. Così come «è evidente che l'omissione del contenuto integrale della frase di Riccio, riportata solo parzialmente nell'articolo redatto da Travaglio, ne ha stravolto il significato. Travaglio ha fornito una distorta rappresentazione del fatto riferito dalla fonte le cui dichiarazioni lette integralmente modificano in maniera radicale il tenore della frase che nell'articolo è stata agganciata ad arte, in maniera parziale, subito dopo la descrizione del nebuloso contesto di intrecci relativi ad affari illegali, al precipuo scopo di insinuare sospetti sull'effettivo ruolo svolto da Previti».
Ma il peggio deve ancora venire, perché secondo il giudice «le modalità di confezionamento dell'articolo risultano peraltro singolarmente sintomatiche della sussistenza, in capo all'autore, di una precisa consapevolezza dell'attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione di Previti». In lingua corrente: Travaglio l'ha fatto apposta, ha diffamato sapendo di diffamare. E l’incredibile non è neppure questo: incredibile è che un giudice, per una volta, l’abbia messo nero su bianco.