L’inaugurazione del mandato presidenziale in America è una cerimonia in costume, tra le coccarde e le musiche bandistiche e le divise e gli abiti cerimoniali e altri segni di attaccamento alla tradizione sembra di rivivere i tre secoli che precedono il nostro. Ma sembra anche una cerimonia religiosa, l’incoronazione del capo di una comunità scandita dalla preghiera, dalla predica, dal giuramento sulla Bibbia, dalla benedizione, naturalmente in una tonalità protestante dove ciò che importa è “we, the people”, cioè la sovranità collettiva di una grande democrazia costituzionale che si considera una luce su una collina, e una misura di Dio fatta per ciascuno dei partecipanti, fatta per gli individui e le famiglie. Molto bella ed emozionante, per chi ha fiducia nella ritualità monarchica di tutte le solide repubbliche.
L’incoronazione di Barack Obama aveva tratti splendidi, con quella suggestione imperiale che è indicata dalla vivacità cromatica, dalla diversità delle folle, dalla presenza danzante di così tanti neri, asiatici, latinos mescolati in un seguito ininterrotto di feste, di concerti, di canti corali sugli spartiti di canzoni e inni che ciascun americano impara a memoria a scuola e non dimentica mai più. La musica cantata in coro è forse il maggior pegno di integrazione e di ossequio laico alla trascendenza della cittadinanza rispetto all’individuo. Le discussioni di questi anni sul bisogno, o no, di una religione civile capace di legare il vulgo disperso di una repubblica fragile come la nostra si capiscono meglio quando si guardano queste cerimonie tipicamente americane.
Non importa che poi a Washington tendano a comandare in effetti poche famiglie influenti, alleate con i principi della borsa di New York e con il grande business. Non importa che, specie negli ultimi tempi, la presidenza fosse diventata quasi un fatto dinastico, con le famiglie Bush e Clinton sempre dentro o nei dintorni della Casa Bianca. Gli americani sanno che i riti della democrazia sono solo una parte della politica, ma guardano a quella folla variopinta di giudici, congressmen, funzionari pubblici, pastori, lobbisti e altri agenti di influenza, militari, business-men che circondano l’eletto, il prescelto, come al contorno decisivo dell’unzione democratica, della santificazione, sempre reversibile a giudizio delle assemblee elettive sovrane, di un comandante in capo che, finché gli si lascia il potere, è autorizzato a esercitarlo senza troppe remore, riserve, condizionamenti, ricatti di palazzo.
Questo presidente giovane, nero, energico, follemente ambizioso, grande oratore nella tradizione solidarista democratica, ma anche politico realista della scuola di Chicago, è ora alla prova. Deve fermare la crisi con la forza dell’intervento pubblico, ma senza proporre un modello socialdemocratico all’europea che dividerebbe il paese e si incaglierebbe nelle procedure dell’economia mondializzata. Deve estrarsi dalla tragedia claustrofobica in cui George W. Bush e Dick Cheney hanno dovuto recitare la parte del cattivo, e proseguire in quella guerra al terrorismo di cui ha riconosciuto la realtà. Programma da far tremare anche un gigante.
Finora l’idealismo di Obama, il suo spirito sognatore, era il prodotto della parola incarnata in lui stesso, nella sua biografia, nella storia sacralizzata della sua diversità e della sua identità profondamente americana, di qui il suo tratto messianico, la sua forza di rassicurazione e la statura di guida morale, oltre che politica.
Ma il giorno dopo l’inaugurazione del primo mandato tutto questo è finito, e per quanta pazienza manifestino gli americani nella considerazione del presidente e della sua agenda, per quanto gli promettano di non giudicarlo una delusione troppo presto, di lasciargli un grande spazio di manovra adeguato alla vastità della crisi, la resa dei conti comincia da subito.
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