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 IL CASO ELUANA-. SE LA MORTE CE LA PASSA LO STATO, di Maurizio Belpietro Data: 30/01/2009
Appertiene alla sezione: [ Opinione ]
L’ho già scritto: se fossi in coma, rinchiuso in un corpo che non mi risponde più, senza aver la possibilità di parlare o di vedere, probabilmente anch’io vorrei morire. Però vorrei che tutto avvenisse in silenzio, circondato dall’affetto della mia famiglia, lontano dalle polemiche, dai titoli dei giornali, evitando che attorno al mio corpo privo dell’allegria della vita si scatenasse una battaglia. Ecco, è questo ciò che mi colpisce nella vicenda di Eluana Englaro. Com’è possibile che la vita o la morte di una ragazza siano diventate materia di scontro ideologico? Come è potuto accadere che attorno al letto di dolore in cui giace da 17 anni Eluana si siano scatenate le tifoserie dei diversi schieramenti?
Confesso che faccio fatica a comprendere le certezze ostentate da molti, i quali ormai ne fanno una questione di dogma o di libertà, e manifestano convinzioni assolute, neppure sfiorate dal dubbio. Mi fa anche paura vedere che un tema etico complesso, che tocca il mistero dell’esistenza stessa, sia diventato argomento per tribunali. Gli italiani sono i primatisti mondiali nel ricorso al giudizio della magistratura. Alle toghe affidano la regolazione di molti aspetti della vita: ora anche quelli della morte.
Non so se alcuni di voi si siano presi la briga di leggere la sentenza con cui la Corte d’appello di Milano ha autorizzato la rimozione del sondino che alimenta Eluana: io l’ho fatto e ne ho tratto un sentimento di profondo disagio. Nelle quattro pagine del decreto, i giudici stabiliscono con minuziosa pignoleria come debba avvenire il trapasso, ordinando la somministrazione «di quei presidi atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse». Ho cercato di informarmi, per comprendere che cosa celasse il linguaggio burocratico. E ho capito qual è la preoccupazione delle toghe. Visto che Eluana è viva, anche se non dà segni di vita, una volta che il suo corpo sarà privato del liquido che lo nutre e lo disseta, potrebbe reagire. Come? Nessuno lo sa. La corte fa capire che ci potrebbero essere movimenti involontari. Spasmi? Segni di sofferenza di un corpo che non è più nutrito e che non ha più acqua? Forse, ma con certezza non si può dire che succederà dopo il distacco del sondino.
La morte non arriverà subito. Il corpo di Eluana non si spegnerà come una tv cui sia stata staccata la spina, ma continuerà a vivere per giorni, forse settimane. Terri Schiavo, la donna della Florida il cui caso anticipò le polemiche di oggi, visse 14 giorni senza l’alimentazione artificiale. Morì di fame o di sete, con una lenta agonia, come disse chi era contrario alla sospensione dell’alimentazione? Oppure fu un addio sereno senza alcuna sofferenza, come sostenne chi era favorevole? La risposta non c’è. Nel dubbio, i giudici si preoccupano di stabilire che a Eluana siano somministrati dei sedativi e «sostanze idonee a eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi». È giusto che sia una corte a ordinare come deve morire una ragazza? Misure e precauzioni da prendere per spedirla all’aldilà vanno decise per sentenza? Non lo so. Credo di no, anche perché affidare il destino dell’esistenza ai magistrati mi sembra l’ultimo atto di burocratizzazione della vita.
Di un fatto sono certo: al posto di Eluana, non vorrei mai andarmene in un ospedale, ma a casa mia, tra i familiari. Lo so che entro in un campo minato. Ma non capisco Beppino Englaro, il padre, e questo suo accanimento a volere a tutti i costi una struttura pubblica dove far morire sua figlia. Forse vuole affermare un principio? Il diritto a un «fine pena» per i tormenti patiti in tanti anni d’ospedale? Comprendo il suo dolore, ma almeno la morte io non vorrei che me la passasse il servizio sanitario. Almeno quella vorrei che restasse un affare privato e non di stato.

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