Un po’ di memoria per cominciare. Elezioni politiche del 13 giugno 2008, Camera dei deputati: Popolo della libertà 37,4 per cento, Partito democratico 33,2, Lega nord 8,3, Unione di centro 5,6, Italia dei valori 4,4, Sinistra arcobaleno 3,1, La destra 2,4, Mpa 1,1, Partito socialista 0,95, Partito comunista dei lavoratori 0,57, Sinistra critica 0,45, Forza nuova 0,30, Partito liberale 0,28… L’accordo tra Pd, Pdl e gli altri partiti presenti in Parlamento per la soglia di sbarramento del 4 per cento alle elezioni europee di giugno stabilizza la «strage degli innocenti» lasciando fuori dell’aula di Strasburgo una decina di partiti che lo scorso aprile totalizzarono insieme l’8 per cento dei voti.
Lo sbarramento è sensato: non a caso esiste in tutta Europa. Per noi sarebbe inconcepibile tenere fuori dal Parlamento partiti che arrivano al 17 per cento, come accade in Irlanda, o al 9,5, come in Gran Bretagna. Ma la maggior parte dei paesi, a cominciare da Francia e Germania, ha lo sbarramento al 5 per cento. Solo la Grecia, in tutta Europa, si ferma al 3. Le conseguenze politiche da noi sono tuttavia più pesanti, per la nostra inveterata abitudine proporzionalista che ancora un anno fa consentiva l’esistenza di 18 gruppi parlamentari alla Camera.
La riforma giova visibilmente al Pd e al suo segretario Walter Veltroni: tre quarti di quell’8 per cento rimasto fuori dal Parlamento stanno a sinistra. Ma sarebbe illusorio immaginare che quei voti andassero necessariamente a rafforzare i democratici. Il risentimento a sinistra nei confronti di Veltroni è oltre il limite di guardia.
L’assenza del «voto utile» può favorire sia le astensioni (che si annunciano massicce), sia il voto di bandiera per liste che in ogni caso resteranno fuori da Strasburgo; e può soprattutto redistribuire le carte all’interno del centrosinistra in maniera non confortevole per il segretario. Se davvero l’Italia dei valori dovesse andar vicino al raddoppio dei voti dello scorso aprile, come sostengono i sondaggi, pescherebbe ben poco in area Lega-An e moltissimo tra gli scontenti del Pd e tra gli elettori irritati della sinistra radicale che puntano al doppio risultato di punire Veltroni e di premiare chi, come Antonio Di Pietro, va accreditandosi come «l’unica vera opposizione al Cavaliere».
Se al successo di Di Pietro si abbinasse una discesa del Pd fino al baratro del 25-26 per cento oggi stimato dai sondaggi (ma a mio avviso non del tutto credibile al momento del voto), la resa dei conti al congresso democratico sarebbe fatale.
Gli «innocenti» della sinistra radicale, con un peso politico e mediatico in caduta libera, si giocano l’ultima carta prima dell’estinzione: si può passare da un incredibile colpo di reni che riporti una nuova coalizione di sinistra a superare la soglia all’autoconsegna al Pd della frazione di Rifondazione comunista che fa capo a Nichi Vendola (e in fondo a Fausto Bertinotti) a un «muoia Sansone con tutti i filistei» nelle alleanze locali. Improbabile, non impossibile.
E Silvio Berlusconi? Perché il presidente del Consiglio è andato incontro a Walter? Per rubare qualche voto a Francesco Storace? Poco credibile. Il Pdl deve guardarsi soprattutto dalla Lega, che potrebbe sfondare il 10 per cento e soprattutto accreditarsi come primo partito nel Nord-Est. Né basterebbe un eventuale accordo sulla Rai, pur sempre limitato, a giustificare la mossa. Per capirla dobbiamo spostare in alto il discorso. Per esempio alla riforma dei regolamenti parlamentari, che consentirebbe al governo di approvare i propri provvedimenti in poco più di due mesi evitando il ricorso al decreto legge. E soprattutto al rafforzamento di quel bipolarismo la cui caduta potrebbe seminare mine pericolose anche all’interno del Pdl.